Ripensare l’assistenza


Sono un infermiere della Medicina Generale di Livorno, Asl Nord Ovest; uno dei reparti a mio avviso tra i più belli ed affascinanti di questo ospedale, ma anche in linea generale.
Lo è per tanti motivi che mi sono difficili da distendere così su una lettera e sicuramente non riuscirei a renderne minimamente l’idea.
Ho accettato l’incarico due anni fa nel 2018; chiedendo specificatamente di lavorare in questo settore pur non avendo esperienza precedente.
Eppure tra questi malati mi sono sempre sentito appagato e soddisfatto.
Sono un infermiere tra quelli che ha tutta la voglia di continuare a crescere qui, esattamente dove è, con la grande speranza di riuscire a veder crescere anche questa realtà.
Per tali motivi ho deciso di scrivere, cercando di focalizzarmi su nuovi punti e nuovi sviluppi che possono migliorare la qualità delle cure che eroghiamo ai nostri pazienti. Decido di condividere le mie idee e le mie riflessioni nella speranza che possano essere oggetto di ulteriori spunti e considerazioni.
E comincio da un dato di fatto: la necessità di un riassetto organizzativo per le medicine generali sul territorio nazionale italiano ed europeo era già avvertita prima ancora della pandemia da Sars- cov 2. In tal senso molte sono state le società scientifiche e gli organi di rappresentanza delle professioni che sono intervenuti in più occasioni a segnalare la mancanza di nuove riorganizzazioni e di nuove risorse di personale a fronte della crescente richiesta di bisogni di salute da parte di una popolazione sempre più longeva. Longevità segnata purtroppo spesso da riacutizzazioni di patologie croniche o di pluripatologie cronico-degenerative.
Per coloro che lavorano nelle medicine, l’avere a che fare con le malattie croniche è all’ordine del giorno.
Negli anni l’approccio ad ognuno di queste patologie cronicizzanti è stato estremamente mutevole grazie al succedersi di nuove terapie e dispositivi medici (dagli inalatori ai dispositivi di controllo glicemico sottocutanei).
Oggi la pandemia da Sars-Cov 2 può rappresentare un ulteriore punto di svolta nella storia della medicina generale. Durante i mesi di marzo e aprile 2020, gli accessi al pronto soccorso in tutta Italia si sono ridotti in modo esemplare (i numeri variano dal 30 al 60%).
Le medicine, che non si affollavano di pazienti covid positivi, hanno potuto godere temporaneamente di un rapporto infermiere/paziente migliore (in alcuni casi da 1 a 12 a 1 a 6) e di concerto si è potuto erogare anche cure sensibilmente migliori.
Durante la prima ondata infatti il peso della pandemia è stato sentito in particolar modo dalle malattie infettive, dalle terapie intensive e nelle rsa.
Questo periodo di distensione per le medicine ospedaliere in realtà è stato particolarmente breve se si pensa a un tentativo di normalizzazione durante il periodo estivo, anche con la ripresa delle attività chirurgica ad esempio, per poi l’esplosione in definitiva della seconda ondata a ottobre e novembre con interessamento di tutte le medicine internistiche su territorio nazionale.
Proprio questo breve periodo però ha innescato un pensiero su come effettivamente si potrebbe normalmente lavorare nelle medicine ospedaliere e su come arrivare a farlo dopo che questa pandemia si sarà risolta.
Ed ecco alcune mie riflessioni.

Penso sia necessario tornare a spendere tempo per parlare nuovamente di due strategie a mio avviso irrinunciabili se si vuole immaginare un’evoluzione della sanità: l’ospedale di territorio e l’integrazione cura/assistenza/riabilitazione.
L’ospedalizzazione territoriale, permette di indirizzare il paziente – che risponde a specifici criteri – a un percorso diagnostico-terapeutico svolto principalmente al proprio domicilio escludendo di fatto un’ospedalizzazione.
L’ospedale territoriale è una strategia la cui applicazione non finisce solamente nell’indirizzamento degli acuti o subacuti verso il proprio domicilio ma ci permette di tornare a vedere la medicina ospedaliera in un altro modo, meno congestionata da ricoveri impropri.
Il territorio soffre sotto molti punti di vista; uno di questi è la continuità delle cure. L’ospedale di territorio ci può aiutare a contrastare anche in maniera significativa questo problema.
Il risultato più evidente di una medicina generale organizzata anche con ospedale di territorio sarà l’accesso esclusivo dei soli pazienti con stretto bisogno di ospedalizzazione e la possibilità per medici e operatori sanitari di fornire cure più mirate.
Chiedersi cosa rimane da fare dopo un salto di qualità già certamente consistente quale l’ospedale territoriale non è una semplice domanda. A mio avviso la risposta è questa: rimane da integrare cura/assistenza/riabilitazione.
Personalmente ho sempre avuto la sensazione che alla medicina generale mancasse “un pezzo” ma per molto tempo non sono riuscito a capire di cosa si trattasse.
Nelle medicine generali c’è spesso un infermiere che si occupa dell’assistenza dei pazienti (per quanto a molti possa non piacere si tratta dell’assistenza di base, ovvero del classico giro letti, ma anche di medicazioni, prelievi sanguigni ecc,), un altro infermiere che si occupa principalmente dell’assistenza terapeutica (quindi è impiegato nel classico “giro terapia”), ma nessuno che effettivamente si occupi di solo “giro riabilitazione”(Il gergo è volutamente improprio rispetto alla letteratura internazionale ma è quello che usiamo quotidianamente).
Ricordo due momenti in particolare che mi spiazzarono letteralmente, senza però rendermi conto del perché in quell’istante.
Il primo fu all’inizio della mia carriera: uno dei miei colleghi stava facendo la “terapia di mezzogiorno” quando un fisioterapista gli si avvicinò dicendogli “ mi devi dare una mano per mobilizzare questo paziente”.
Ma il mio collega prontamente negò l’aiuto “ se devo iniziare a dare una mano a te, poi dovo mobilizzare anche lui, e poi lui, ma anche lui..” giustificando così che non aveva il tempo da prestargli.
La seconda volta ero invece io che svolgevo la terapia; mi ritenevo già un infermiere esperto. Avevo tentato come sempre di lasciare i pazienti alla perfezione. Entrò in stanza il medico di uno dei miei pazienti, lo controllò rapidamente e poi si volse sbuffando qualcosa. Mentre lasciava la stanza mi guardò di sfuggita “questi pazienti dovrebbero fare tutti la fisioterapia!”. Rimasi spiazzato anche allora.
Non riuscivo a capacitarmi: perché, come direbbe Bertol Brecht, una cosa così semplice è così difficile a farsi?
Perché non c’era un riabilitatore costantemente presente ogni giorno ad aiutare questi pazienti a riprendere autonomia funzionale?
Semplicemente, non poteva e non potrebbe esserci.
Anzitutto perché non neanche è lontanamente immaginabile di poter disporre di un numero di riabilitatori in tutte i vari setting di medicina generale, che spesso ospitano più di trenta malati e che hanno bisogno di riabilitazioni di tipo diverso tra loro.
Sarebbe un costo immane ed uno spreco oltremodo irrispettoso verso la loro stessa professione e professionalità.
E inoltre perché non dobbiamo dimenticare che la riabilitazione di questi pazienti non consiste solo nel recupero funzionale motorio, altresì importante, ma anche nelle altre sfere delle funzionalità residue, dall’alimentazione ala linguaggio.
Questo significa l’impiego di più “tipi diversi di riabilitatori”.
Ma se da un lato abbiamo una visione olistica della clinica e dell’assistenza dei pazienti, non si può dire lo stesso per la riabilitazione, ovvero: non vi è nessuna figura di riferimento che predisponga ed organizzi la riabilitazione nelle medicine generali.
Ecco, secondo me il “pezzo mancante” nelle medicine generali una figura professionale per completare un vero percorso di cura: l’infermiere di riabilitazione.
L’esperienza che ho maturato fin qui mi porta a dire che è necessario, per chi come me lavora direttamente nei contesti di medicina ospedaliera, ripensare il proprio lavoro, credere che ci sia sempre un’alternativa.
E ancora, che si possa fare sempre meglio di come stiamo facendo; che le cose non cambiano di per sé, spetta a noi farle cambiare. Nessuno lo farà al posto nostro.
Cambiare crea sempre resistenza, così come affrontare nuove sfide complesse.

17 febbraio 2021

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