Cara Florence,


Mai come in questo momento sento vivo il bisogno di raccontarti il mio cammino, di chiederti consiglio, di rivolgere la mia gratitudine a te, modello ineguagliabile di virtù, talento e vivo intelletto.

Ti scrivo mentre sono su un treno diretto a Genova, lontana 712 Km da casa perché da tempo la mia nuova dimora è diventata questa città che, come una tenera madre, mi ha accolta tra le sue braccia per una scelta ferma e realizzata con il tuo stesso slancio. Essere infermiera ha allargato i miei confini e mi ha condotta in un nuovo porto in cui ho immerso le mie radici e imbevuto il mio bagaglio culturale per arricchirlo e condividerlo con i miei stimati colleghi e studenti in corsia.
Durante questi anni di cambiamento, di poche ma salde certezze, di crescita personale e professionale, ho pensato spesso a te, che hai scelto di dedicarti alla cura degli infermi: questa parola ha un’essenza particolare perché trasferisce alla radice della nostra identità professionale il valore profondo di una chiamata a cui tu, per prima, hai risposto con slancio: sei andata contro la volontà dei tuoi genitori, non hai ceduto al corteggiamento di Richard Milnes. Era già evidente dentro di te la grandezza del destino a cui saresti stata condotta.
Chissà quale sarà stato il tuo pensiero mentre il fotografo Hering ti immortalava come fondatrice della professione infermieristica: il tuo sguardo è imperscrutabile ma sicuro, avevi pressappoco quarant’anni, reduce da un’esperienza in Crimea cruenta e senza fine.
Le notti in cui camminavi vigile con il tuo passo silenzioso tra i corridoi lunghi e sporchi dell’ospedale militare di Scutari potevi ascoltare i lamenti continui dei soldati, vedere le ferite nei loro corpi inferte sui campi che raccoglievano sangue e morte. In quell’inferno umano la tua lampada ad olio è riuscita a cancellare il buio dell’indifferenza e a portare la luce della scienza e della coscienza.
Quell’esperienza ti ha fatto attraversare soglie e gettare le basi delle scienze infermieristiche moderne: la genialità e l’innovazione che hai brillantemente dimostrato si possono ricercare nella tua sete di conoscenza verso il progresso scientifico, nell’affermazione di ruolo di donna non più riconducibile a quelli ristretti e costretti di moglie e madre nel clima igienistico che hai appreso prima da tuo padre epidemiologo e poi dalla rivoluzione culturale che hai respirato nella Germania e nella Francia da te esplorate a lungo. Hai continuato a formarti e a formare nuove donne per un nursing di qualità e a individuare nell’ambiente l’elemento essenziale per la salute, il benessere e la vita dell’uomo nella sua totalità attraverso uno studio intriso di osservazione e ragionamento.
Hai costruito le fondamenta di una professione che hai investito di dignità e valore e, dopo 200 anni, possiedi ancora quel carisma di massima leader che influenza la nostra attuale identità e continua a darle forma e sostanza.
E allora, cara Florence, svelaci il segreto della tua costanza incorruttibile al tempo, di come non spegnere il fuoco del sapere nonostante le difficoltà del vivere quotidiano, di come non sentirsi sconfitti di fronte agli schiaffi e agli sguardi violenti e indifferenti di chi ancora non ci conosce e non sa chi siamo, cosa facciamo e dove stiamo andando.
Insegnaci a non morire in noi stessi, a continuare il vivo interesse a plasmarci, a costruire ponti e confronti tra di noi e con gli altri e non muri incomunicabili.
Suscita in noi, attraverso il tuo esempio, l’entusiasmo vivo e dinamico affinché non ci spaventi questa scalata senza precedenti.
Sono alla fine di questa lettera come alla fine del mio viaggio: dal finestrino si vede in lontananza la Lanterna che sormonta la città, faro immenso che illumina di notte. Ed ecco che mi ritorna in mente la tua lampada ad olio che portavi stretta in mano in quei corridoi bui nella caserma Selimiye: la tua eredità siamo noi, che hai partorito attraverso la tua rivoluzione copernicana e che hai nutrito senza alcuna “apprensione, incertezza, attesa, aspettative, paura delle novità perché fanno ad un paziente più male di ogni fatica”.

Questa lettera è parte di un’Antologia in pubblicazione a cura dell’OPI di Terni.

30 dicembre 2020

STAMPA L'ARTICOLO