Cure palliative, il senso profondo del prendersi cura


Papa Francesco ha definito le cure palliative espressione dell’attitudine, propriamente umana, a prendersi cura gli uni degli altri specialmente di chi soffre e testimonianza che la persona umana rimane sempre preziosa anche se segnata dall’anzianità e dalla malattia.
La Legge n. 38 ha compiuto dieci anni il marzo scorso, a che punto siamo nell’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore? Cosa manca ancora alle cure palliative e all’approccio palliativo?
Lo abbiamo chiesto a Cesarina Prandi, torinese infermiera con formazione in ambito umanistico, con una grande esperienza come formatore nell’ambito delle cure palliative, professoressa di Teorie e prassi delle relazioni di cura alla Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana (SUPSI), e per 5 anni segretario della Società Italiana di Cure Palliative (SICP).

Cesarina, partiamo dalla formazione dei professionisti e nello specifico degli infermieri, è del 2015 il tuo testo su l’infermieristica in cure palliative. Nella prefazione Carlo Peruselli – Presidente SICP scriveva: “Finalmente, ed è la prima volta per il nostro Paese, viene pubblicato un Manuale dedicato agli infermieri che iniziano a lavorare nelle reti di cure palliative italiane. Esso nasce dal grande patrimonio specifico di competenze ed esperienze che questi professionisti hanno maturato nel corso di alcuni decenni in questo tipo di attività assistenziali”.

Dunque non partivamo da zero in termini di competenza ed esperienza in questo ambito, oggi dove siamo?
Nel 2015 potevamo contare su oltre 15 anni di esperienza nell’ambito delle cure palliative, i primi infermieri italiani all’alba del 2000 avevano visitato le eccellenze nell’ambito della palliazione nel Regno Unito, in Canada, in Svizzera e altre parti del mondo; le prime esperienze come spesso accade si sono basate sull’imparare da chi già svolge la pratica clinica. Alcune Regioni Italiane si sono attivate attraverso la Formazione Continua, sulla base di ricche collaborazioni con Fondazioni e Associazioni che si sono per prime occupate di sviluppare le competenze come ad esempio la Fondazione Floriani in Lombardia, Pallio in Piemonte, Antea nel Lazio, la Samot in Sicilia. Molteplici di queste esperienze hanno contribuito alla creazione dei servizi di Cure Palliative.
Non va infatti dimenticato che in questo settore sono state le Associazioni no profit che hanno attivato per prima i servizi alla persona. Poi sono arrivate le leggi, prima quelle a fine anni 90 che hanno cominciato a generare interesse, a far parlare di Cure palliative, come la legge che prevedeva l’istituzione delle strutture hospice e così via fino alla legge 38 del 2010. Anni di fermento e generatività all’interno delle comunità di medici, infermieri e volontari che si occupavano di malati.
I primi servizi di cure palliative nel SSN, create al loro interno con strutture dedicate. Da questo rapido escursus si intravede la crescita delle competenze dei professionisti, gran parte di loro manifesta una grande volontà di aggiornarsi, di formarsi con quel che il territorio metteva loro a disposizione: corsi di aggiornamento organizzati dalle Regioni, Master di primo e poi di secondo livello, formazione sul campo, addestramento al letto del paziente, peer education.
Ma questo ricco ventaglio di possibilità non può certo bastare a formare una nuova categoria di professionisti che su tutto il territorio nazionale garantisca cure palliative di qualità a tutte le persone che ne hanno necessità. La formazione, come sappiamo è un processo organizzativo secondario, che concorre al miglioramento della pratica clinica. La tenue risposta in materia di formazione alle competenze a cui si assiste ancora oggi nell’ambito dell’infermieristica in cure palliative fa coppia con l’ancora più tenue risposta organizzativa.
La mancanza di chiare scelte dei modelli organizzativi, dei luoghi in cui si svolgono le cure a tutti i malati che necessitano di cure palliative, la diatriba continua su quel che si può e si deve mettere in pratica non aiutano a realizzare un impianto formativo-organizzativo stabile e basato su una strategia chiara di utilizzo di competenze avanzate degli infermieri in cure palliative.
Nelle parti del mondo in cui le cure palliative si sono sviluppate maggiormente, i sistemi hanno saputo definire delle regole generali (che applicano e rispettano) come ad esempio che infermieri coinvolgere nei settori di cura, come formarli, come sono organizzati i teams.
Ma in pratica dove siamo oggi? Abbiamo a disposizione, Università in cui si svolgono Master di primo livello rivolti a infermieri. La gran parte di questi corsi Universitari sono frequentati da infermieri che scelgono di parteciparvi, spesso senza una co-decisione con i loro responsabili organizzativi. Il fatto che non si pianifichi a livello organizzativo la Formazione continua (peraltro in ambito di percorsi cospicui) ne causa una sottovalutazione. Accade anche che le persone che hanno acquisito competenze specifiche non vengono valorizzate in questo settore.
Quel che manca, è “una visione”, “la visione” del capitale umano e professionale, di considerare le biografie degli infermieri sulla base di cosa sanno fare, e che cosa vorrebbero fare nel loro domani. Anche quando, in alcune “isole” di servizi di cure palliative questo è stato applicato, talvolta è stato interrotto o applicato con discontinuità.
Dal punto di vista della competenza è una perdita e lo è rispetto alla qualità delle cure erogate e al conseguente sviluppo dei servizi. Secondo Benner, per acquisire il ruolo di esperto clinico , ci vogliono formazione, anni di permanenza in servizio e autovalutazioni ed eterovalutazioni continue. Questa modalità non è ancora compiuta.
Nell’ambito delle cure palliative assistiamo inoltre all’esodo degli infermieri esperti, quando hanno concluso la formazione e poi svolto lavoro il loro lavoro per una quota di anni, escono da questo settore.
Potremmo attenderci un effetto “contaminazione”, ovvero questi infermieri esperti che andranno a lavorare in altri settori potrebbero trasferire sapere e modelli di assistenza propri delle cure palliative. Non lo sappiamo con precisione, studi su questo tipo di trasferimento non ce ne sono in Italia. La storia di molti colleghi si ferma a raccontarci che si sentono soli, che si è voltata pagina, che senza un’équipe non si può ottenere nulla sul piano clinico.
E’ pur vero che numerosi sono i colleghi infermieri che si sono formati con un livello Master, altri che hanno indirizzato lavori svolti all’interno di percorsi di Laurea Magistrale con tesi eccellenti nel settore e non da ultimo alcuni progetti di ricerca sviluppati all’interno dei percorsi di Scuole di Dottorato In Scienze infermieristiche. Sembra che tutto questo non sia sufficiente per rispondere in maniera equa a tutti coloro che necessitano di Cure Palliative nei differenti setting quali domicilio, hospice, RSA e reparti ospedalieri.
Potrei concludere questa risposta indicando che abbiamo una grande “massa critica” di professionisti dotati di molta esperienza, tale da poterla trasferire ad altri, che ha la necessità di definirsi in un modello educativo che sia articolato per percorsi di alta formazione accademica graduato fino ai percorsi di aggiornamento annuale previsto e richiesto con l’aggiornamento continuo ECM.
Avremo forse un impatto di outcome della formazione da applicare nella pratica clinica, luogo da cui derivano le declinazioni delle competenze da acquisire e che andranno armonizzate con quanto previsto da organismi nazionali e internazionali che hanno messo a disposizione set di competenze e curricula formativi.

Nel 1990 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito obiettivo delle cure palliative il raggiungimento della migliore qualità di vita per i pazienti e le loro famiglie, lo abbiamo raggiunto?
Trent’anni… In trent’anni si è certamente condiviso che uno degli aspetti salienti da garantire è la qualità della vita delle persone assistite. Più difficile intendersi su cosa significa qualità della vita e come garantirla o quanto meno tendere a raggiungerla.
L’impegno e il lavoro quotidiano di migliaia di professionisti che ogni giorno seguono a domicilio, in hospice e in ospedale i malati e le loro famiglie svolgono un lavoro peculiare che emerge sia dai lavori scientifici pubblicati, sia dai rapporti sulle attività che vengono resi noti dalle Istituzioni si producono per gli Enti.
In particolare se ci riferiamo alle differenti modalità di espressione di gratitudine mostrata dai famigliari nei confronti dei operatori e la quantità di donazioni che vengono effettuate ai servizi no profit e alle associazioni di volontariato diventa chiaro che si fa molto e questo molto è riconosciuto dai famigliari e amici dei malati che sono deceduti.
Le cure palliative sono definite come livelli essenziali di assistenza tuttavia non tutti i cittadini ne possono beneficiare quando servono, né tantomeno secondo le più recenti indicazioni di cure palliative precoci. Sono servizi disposti sul territorio nazionale a macchia di leopardo. In sintesi quindi, la qualità è raggiunta e gli sforzi per procedere nella direzione indicata dall’OMS esiste laddove ci sono i servizi organizzati, riconosciuti e accessibili. Troppo pochi ancora per garantire una qualità dell’accompagnamento nell’ultimo periodo della vita a tutti coloro che sono in quella condizione e nei diversi setting di cura in cui si possono trovare a vivere quella singolare esperienza.

Nella Legge 38 si parla di tutela e garanzia di accesso alle cure palliative (articolo 1) e di semplificazione delle procedure di accesso ai farmaci per la terapia del dolore (articolo 10). A dieci anni dalla sua entrata in vigore possiamo ritenere acquisiti, consolidati e semplificati questi percorsi?
I servizi di terapia del dolore si sono rafforzati e diffusi su tutto il territorio nazionale. Sono maggiormente ancorati ai presidi sanitari e spesso diventano dei centri sia clinici che di formazione per il resto dei professionisti di interi ospedali. Alcuni sviluppano reti di servizi di terapia del dolore a cui altri reparti possono accedere con procedure semplificate, in alcuni casi seguono malati sia in regime di ricovero che di day hospital, ambulatorio o domicilio.
Questa differenza di struttura di setting permette la modulazione di interventi soprattutto per situazioni molto complesse e articolate. In questo settore sono spesso impiegati infermieri con molta esperienza sul campo. Non esiste un accesso di infermieri vincolato all’espertice acquisita o alla formazione frequentata. L’uso dei farmaci oppioidi, utilizzato come indicatore a livello internazionale del controllo del dolore , è aumentato progressivamente negli anni.
Si dovrebbe tendere a individuare nuovi indicatori che superino l’utilizzo del farmaco, quanto che coinvolgano il benessere delle persone, il tempo trascorso liberi dal dolore e così via. Rispetto al tema dell’accessibilità ai servizi, mi preme sottolineare la necessità di diffondere la cultura di questi servizi (terapia del dolore e cure palliative) in primis fra gli operatori medesimi di settori affini o anche distali in modo da creare una popolazione di professional alleati nella cultura della presa in carico del malato sofferente e/o affetto da malattia grave non eleggibile a guarigione.

Recentemente sono mancate due persone a te molto vicine. Ti sei trovata nella veste del familiare che ha avuto bisogno di accedere alla rete di cure palliative, come è andata?
Per molti anni mi sono occupata a livello di pratica clinica in Cure Palliative e successivamente a livello manageriale e formativo. E non si considera mai abbastanza…quando tocca noi…passare attraverso cosa ci accadrà. L’esperienza recente di due gravi lutti non è indolore e neanche da chiudersi in una parentesi. E’ un’esperienza che rimane scritta, incisa nel proprio animo.
E ti trovi dalla sera alla mattina e dalla mattina alla sera a riflettere su cosa è stato meglio, giusto, piuttosto che adeguato. Su tutto quel che sai, che hai visto e che hai praticato. Ripensandoci bene tutto è diventato più quieto quando mi sono affidata. E’ stata una grande esperienza di fiducia. Di fiducia nella sofferenza e piano piano questa fiducia serve a farti respirare, a immaginare che ce la puoi fare.
Avere prima la speranza e poi la certezza che esistono professionisti che si possono occupare di persone che si amano, che rappresentano il tronco della nostra esistenza è stato il vero aiuto. Tronchi e radici che accetti di vedere invecchiare, incisi dalla malattia o dalla vecchiaia, ma che non tolleri di vedere piangere, soffrire, perdersi nei meandri dell’inquietudine fino alla disperazione.
E’ questo quel che si rischia a non avere vicino persone che applicano principi e metodi di cure palliative. Troppo spesso ho sfiorato medici e infermieri che hanno tentato di decide per il bene di qualcun altro, che applicavano provvedimenti per rincorrere la futilità, affidando a noi famigliari la responsabilità delle resistenze. Ho poi potuto incontrare altri professionisti, li ho cercati. E a livello ospedaliero, in aree di emergenza e di trattamenti sostitutivi ho incontrato équipe di grande valore, ho partecipato con i miei famigliari a family conference vere, reali, che ci hanno aiutato a fare i conti con quel che stava capitando, anche se molto tempo prima che avvenisse la morte.
Questo è stato un bene per tutti noi, ci ha permesso di accompagnare il nostro caro per come lui intendeva e desiderava. In occasione della perdita del mio babbo, ho avuto il sostegno di un’équipe di cure palliative domiciliari che hanno saputo accompagnare me, attraverso i miei mille dubbi le mie perplessità a domicilio, in periodo di lockdown in preda ad una solitudine eccessiva per vivere nella nostra cultura la necessaria vicinanza nei periodi di accompagnamento alla morte e del successivo periodo di lutto.
Solo loro: un medico e un infermiere di riferimento, la nostra badante, sono stati per me e mio marito “il tutto” in termini di quel che serve a stare nella posizione a mantenere fermezza nelle cure, a non perdere la fiducia che quel che si stava facendo era la “cosa giusta”. In questo periodo non entrava nessuno nelle case, soli, eravamo definitivamente soli. Ma mai isolati.
Abbiamo salutato i parenti con le videochiamate, come in videogioco, abbiamo sentito le voci che si affievolivano e impastavano. Il mio babbo è morto a casa, nel suo letto come desiderava, con noi vicino. Ha ballato fino a 5 giorni prima di coricarsi per non alzarsi più. Ha dormito con noi vicino. E’ stato cullato, lavato, accarezzato e in sostanza amato senza dolore, senza agitazione. Se n’è andato con un papillon e una rosa rossa fra le mani, il suo cappello sulle gambe, una castagna in tasca e il suo mazzo di carte.
Cosa dire? Ai colleghi delle cure palliative dico che se non esistessero bisognerebbe inventarli. In considerazione del fatto che esistono bisogna fare in modo che possano lavorare al meglio, riconosciuti nelle loro professionalità, che le persone che stanno concludendo i loro giorni possano accedervi sempre di più anche quando si pensa di sapere e di aver fatto, perché siamo professionisti del settore. Quando tocca a noi abbiamo l’occasione di essere fiduciosi negli altri colleghi, solo così a mio avviso avviene la vera cura. Noi che ci affidiamo e i professionisti che ci assistono.

Insieme a Laura Vicario sei autore del libro “Ogni spina ha la sua rosa” un testo in cui si raccontano, emozioni, vissuti, difficoltà del lavoro in questo ambito, cosa può dare la medicina narrativa ai professionisti e ai familiari?
La medicina narrativa è un metodo con cui praticare la cura, generato da una condizione di ascolto attivo, di curiosità delle vicende umane, di vicinanza ai vissuti della persona che stiamo assistendo. E’ una forma richiedente: richiede la capacità di sentire gli echi che questo metodo genera dentro di sé; richiede una continua attività di astensione dal giudizio, di lasciare a parte i pregiudizi.
Possiamo immaginare che sia un metodo applicato ad una situazione che si crea e si disegna continuamente fra persona assistita e curante. Quali sono gli effetti? Cosa può dare? Innanzitutto amplia lo spazio relazionale, è come se invece di guardare a un paesaggio da un buco della serratura potessimo guardare ad un pianoro, un altopiano, avere un orizzonte. In uno spazio ampio ci si può smarrire, ancor di più se riguarda lo spazio dell’esperienza di malattia, del fine vita.
La vicinanza, la coralità che si crea fra persone assistite, famigliari e curanti permette di limitare lo smarrimento, permette di tessere fili di storie, di biografie, di vicende umane che tengono insieme tratti di storia passata per risignificare il presente. E’ difficile, secondo me distinguere differenti benefici per professionisti e famigliari, penso piuttosto alla significanza che si genera nell’agorà, nella pratica di un rito comune. Non si tratta di raccogliere storie e narrazioni e metterle vicine, e poi analizzarle quanto di creare un impianto di cure basate sulla relazione, sui significati e sulla ricerca di senso.
Aver condiviso con Laura questo percorso di scrittura è stato per me una pietra miliare nell’esperienza diretta, che mi ha posto in prima persona a contatto con l’eco generato dalla storia dei professionisti, dei malati e dei loro famigliari.

Un’ultima domanda Cesarina, quale è la spina delle cure palliative?
Cosa sarebbe una rosa senza spine? Così potremmo dire delle cure palliative. Perché è innegabile che occuparsi del periodo ultimo (anche se costituito da mesi e anni) della vita, nella nostra cultura è andare un po’ contro corrente. Vorremmo tutti non esitare mai nel fine vita e vedere l’eternità dominare il mondo?
Questa riflessione a mio parere ci avvicina a quel che ritengo la vera spina delle cure palliative, che forse va mantenuta per riconoscere alle cure palliative la sua vera essenza. Si tratta di praticare cure in condizioni di grande sofferenza e di doversi confrontare con i valori della vita e della morte, dell’esistenza, della scomparsa e dell’assenza.
Temi che non attengono esclusivamente alla medicina quanto a molteplici sfere, soprattutto all’esperienza singola e soggettiva dell’uomo. Al rapporto dell’uomo con i misteri, con l’infinito. La medicina può fare la sua parte. Una pratica che deve ancorarsi a supporti antropologici ed etnografici integrando il contributo della pratica basata sull’evidenza della medicina.
La sfida è quella di riconoscere l’apporto dell’essere umano a questo periodo nelle differenti forme di cui dispone (spirituale, filosofico, emotivo, somatico, educativo e tanto altro) e questa è anche la spina che pungendoci, se non maneggiamo bene il sistema risveglia la nostra attenzione e ci rende attenti e pronti a porre rimedio.

Marina Vanzetta
28 ottobre 2020

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