Raccontami di te


“A noi non è dato di vivere in eterno. Alle storie sì.”
Pinkola Estes

Nell’incontro clinico avviene uno scambio di narrazioni e una negoziazione di significati. Attraverso la narrazione si può sviluppare un percorso di cura personalizzato, favorire la partecipazione della persona assistita e rinforzare l’alleanza terapeutica.
Nelle Linee di indirizzo per l’utilizzo della Medicina Narrativa in ambito clinico assistenziale per le malattie rare e cronico-degenerative la medicina narrativa viene definita una metodologia di intervento clinico-assistenziale basata su una specifica competenza comunicativa.
Per entrare nel merito dell’uso della narrazione nell’agito quotidiano abbiamo incontrato Paola Arcadi profonda conoscitrice di questo ambito e dei suoi strumenti oltre che Tutor e docente presso il Corso di Laurea in Infermieristica, Università degli Studi di Milano e Presidente dell’Accademia di Scienze Infermieristiche (ASI).

Paola, il concetto di medicina narrativa è abbastanza recente, si è cominciato a sentirne parlare alla fine degli anni Novanta grazie a due medici che possiamo definire pioneri: Rita Charon e Rachel Naomi Remen che hanno cercato di sensibilizzare il mondo medico all’utilizzo dell’approccio narrativo nella relazione con il paziente.
Nel nostro Paese e nello specifico per noi infermieri quando è iniziato questo percorso di sensibilizzazione?

Ti ringrazio per questa domanda, perché mi da l’opportunità di dire subito una cosa a cui tengo molto quando parlo di Medicina Narrativa e del suo legame con la cura e con gli infermieri, ovvero che non può esistere un’assistenza infermieristica che non sia “narrativa”.
Già la sociologia della salute ci ricorda, con Kleinman e Good, che la condizione di malattia è sia disease che illness. La malattia quindi è sì intesa in senso biomedico, come lesione organica oggettivabile e misurabile, ma è anche illness, ovvero l’esperienza di malattia che assume un significato unico e irripetibile per ciascun essere umano.
Come si può comprendere dunque una malattia, se non entrando in relazione con la narrazione di un’esperienza?
Se poi volgiamo lo sguardo alla disciplina infermieristica in particolare, ci rendiamo conto che il nostro dna concettuale è pregno di narrazione; gli infermieri hanno da sempre considerato la persona quale principale oggetto di studio e di azione professionale, e non già la condizione di malattia; i bisogni assistenziali sono costituiti da dimensioni soggettive, tutte le scuole di pensiero della nostra disciplina contemplano l’incontro tra due esseri viventi, ciascuno con il proprio bagaglio di principi, valori, esperienze, quale momento centrale della cura.
L’estrema specializzazione delle conoscenze ha condotto invece la professione medica ad una progressiva perdita della visione di insieme nella cura; per questo motivo negli anni novanta, alcuni esponenti della disciplina medica, tra cui Rita Charon, hanno cominciato a proporre riflessioni illuminanti sulla necessità di recuperare gli elementi soggettivi della cura attraverso le pratiche narrative.
Detto questo, la Medicina Narrativa dunque deve però a mio avviso essere considerata, ancor prima che un insieme di apparati metodologici e strumentali, un modo di “stare” nella relazione con i pazienti, e che mette al centro esattamente questa relazione.

La narrazione è considerata lo strumento fondamentale per acquisire, comprendere e integrare i diversi punti di vista di quanti intervengono nella malattia e nel processo di cura. Concretamente come si usa?
Integrare i punti di vista significa anzitutto farne conoscenza. Ciascuno di noi – curanti e curati – è una VITA, all’interno della quale è tracciata una storia, una trama di vissuti che influenzano idee, percezioni, atteggiamenti, desideri e speranze inerenti la malattia e la cura. L’esperienza di malattia è collocata infatti all’interno di una storia di vita, che non è solo e soltanto vicenda di malattia. Quando interviene una malattia spesso la trama della propria storia necessita di essere ricostruita, ricondotta, chiarita, affinché si possa costruire un significato condiviso, vero punto di partenza per un percorso di accettazione e di cura.
Concretamente, dunque, fare medicina narrativa significa sviluppare la competenza dell’ascolto, utilizzare dispositivi che favoriscano l’emersione delle storie (diari, autobiografie..), integrare le Medical Humanities nella cura. Ciò presuppone un lavoro continuo di formazione allo sviluppo di competenze narrative, che passa anche attraverso la lettura, la poesia, la musica, la pittura, tutti gli elementi artistici che ci aiutano a comprendere l’umano e le dimensioni che lo compongono.

La Medicina Narrativa (NBM) come si integra con l’Evidence-Based Medicine (EBM)?
Talvolta i due termini sono stati citati in contrapposizione, evidenziando – a mio avviso – un errore concettuale di fondo.
Se non esiste assistenza infermieristica senza narrazione, allo stesso modo non esiste EBM senza narrazione. Questo assunto è ben esplicitato nella definizione di EBM fornita da Sackett: “È l’integrazione dell’esperienza clinica, dei valori del paziente, della migliore evidenza derivata dalla ricerca nel processo decisionale per la cura del paziente.”
Essa contiene quindi la relazione di cura, che comprende l’egual peso di ciò che porta il professionista e di ciò che porta il paziente nell’incontro. Troppo spesso viene diffusa una concezione riduttiva dell’EBM, come se fosse solo un problema di numeri; una tale concezione è errata. La capacità del professionista di considerare i valori del paziente, dunque di “colorare” le evidenze – come direbbe Gangemi – è una parte essenziale ed integrale della pratica dell’EBM, non un di più da aggiungere: una pratica che non lo faccia, non è EBM.

Il fine della medicina narrativa è la costruzione condivisa di un percorso di cura personalizzato, la storia di cura. Possiamo quindi affermare che senza narrazione non c’è partecipazione del paziente?
Si. Gaber dice che “libertà è partecipazione”. Io aggiungo che essere liberi di scegliere, di decidere per la propria salute è uno degli obiettivi più elevati che una relazione di cura si deve prefiggere. Essere liberi significa avere piena consapevolezza di sé e dare un significato al proprio vissuto. Senza averlo raccontato a sé stessi e a qualcuno che può aiutarci a collocarlo in una dimensione di senso, non può esistere Cura.

Come si acquisisce, come si sviluppa e come si mantiene Paola la competenza all’uso della medicina narrativa?
Acquisendola, sviluppandola, mantenendola. Esattamente così. Dico questo perché talvolta si pensa che la relazione sia qualcosa di innato, o persino di accessorio nel “mestiere” della cura.
Acquisire competenze narrative significa farne esperienza fin dal percorso di formazione di base, attraverso laboratori e momenti di riflessione e pratica sia in contesti protetti, sia nelle sedi di tirocinio clinico. Vuol dire quindi utilizzare gli strumenti narrativi nella formazione con gli studenti e nella loro relazione con gli assistiti.
Svilupparle e mantenerle significa un lavoro continuo di manutenzione del proprio lavoro di conoscenza di sé e dell’altro, anche attraverso la frequenza a corsi di formazione e di aggiornamento a forte matrice esperienziale, ma soprattutto coltivando nella propria vita l’amore per tutto ciò che è storia narrata: un dipinto, un libro, un paesaggio, qualcuno che ci parla e richiede ascolto.

La narrazione “fa bene” alla persona assistista ma anche a chi se ne prende cura, come?
“Siamo fatti di storie”, dico sempre. Tutti, curanti e curati. A noi è chiesto di far emergere la storia dell’altro facendoci presenza autentica, perché “fa bene” a lui, e ci fornisce elementi di comprensione fondamentali per poter mettere in atto azioni di cura.
Ma presenza autentica significa portare all’altro un noi altrettanto autentico, fatto di pienezza, mai di vuoto. Rachel Remen, che hai ricordato all’inizio di questa intervista, parlando di Carl Rogers dice questo:
Prima di ogni sessione, mi prendo un momento di raccoglimento per ricordarmi la mia umanità”, ci ha detto. La lezione di Rogers ci metteva di fronte ad uno dei principi basilari di ogni relazione di cura autentica: qualsiasi sia il livello di expertise che abbiamo raggiunto, il dono più grande che possiamo fare a chi sta soffrendo, è la nostra umanità nella sua interezza”.
Non possiamo dunque avere interesse per qualcuno se esauriamo o ci viene richiesto di esaurire l’interesse per noi stessi.
In sintesi: non possiamo aver cura autenticamente di qualcuno se non coltiviamo la cura per noi stessi. Solo chi riesce a comprendere il proprio vissuto e ciò che passa dentro di sé nella relazione con l’altro, può infatti offrire il giusto e adeguato aiuto, ed ecco perché la narrazione “fa bene” a chi cura. La narrazione aiuta a far emergere, a far condividere tra colleghi la condizione umana che è un tutt’uno con la condizione professionale. E’ uno strumento potentissimo per curare chi cura.

Secondo te siamo tutti pronti all’uso della narrazione?
Io credo che tutti se ne abbia un estremo bisogno. Il problema è che narrare significa fermarsi, dedicare tempo e spazio all’ascolto, e oggi il tempo pare essere una delle malattie più gravi nei contesti di cura, per la sua mancanza, perché rincorso da tecnicismi e relazioni burocratiche, da sguardi attenti all’orologio, più che all’attimo dell’incontro.
Ma “il tempo di relazione è tempo di cura”, come la nostra deontologia ci ricorda.

Una lettura per facilitare l’avvicinamento a questo strumento e per superare le resistenze laddove ancora ci sono.
Nell’ordine “Un altro giro di giostra” di Tiziano Terzani, e “Medicina narrativa” di Giorgio Bert.
Entrambi due grandi maestri: il primo, con la sua storia di malattia e i suoi insegnamenti. Il secondo, con la sua sensibilità umana e professionale che lo hanno reso davvero pioniere della Medicina Narrativa nel nostro Paese.

Se tu dovessi rappresentare la medicina narrativa con un’immagine, quale sceglieresti?
Un ponte.
Anzi, visto che abbiamo parlato anche di Humanities, scelgo un dipinto: “Lo stagno delle ninfee” di Claude Monet.
Lascio a ciascuno il compito di trovare in questa immagine il proprio significato.

12 settembre 2020

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