Su questo tempo


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Scorrono le note di “Una notte in Italia” di Ivano Fossati, quando vengo catturata da questo passaggio: È la fortuna di vivere adesso questo tempo sbandato, questa notte che corre e il futuro che arriva: chissà se ha fiato.
Un tempo sbandato. Come accade all’auto che guida su un rettilineo e improvvisamente si ritrova fuori strada. Penso a questo tempo, nel quale un microrganismo ha spostato la visuale di tutti noi a causa di un cambio di direzione non voluto ma accaduto, e mi domando dove risieda la fortuna di viverlo adesso e quale visuale ci offre nel suo scorrere davanti a nostri occhi.
Quale tempo stiamo vivendo?

LA SINCRONIA DI UN TEMPO SOSPESO
E’ un tempo sospeso; così sentiamo affermare da più voci in questo periodo. Il lockdown ha fermato le lancette dell’orologio su un’ora incerta, lasciandoci con il respiro corto, con un’apnea dei movimenti che mima quella mancanza di respiro che il coronavirus infligge ai suoi ospiti più fragili. Un virus che ha dunque ricongiunto l’umanità intera in un’unica dimensione: il qui e ora, quell’adesso che ci sussurra la voce di Fossati. Questa notte che corre è un tempo che scorre nel buio delle incertezze, delle incognite, delle paure; è un kronos governato dal virus e dalle sue manifestazioni che ci ha messo di fronte, mai come prima di ora, alla constatazione della nostra finitudine, e alla consapevolezza di trovarci tutti nello stesso punto dell’universo, tutti mossi dalle stesse lancette interiori, da quel “tempo dell’anima” (Borgna, 2015) a cui Sant’Agostino fa ricondurre le dimensioni temporali di presente, passato e futuro.
Tutti. Malati e sani. Curanti e curati.
Il sincronismo dell’anima, nel tempo sospeso, vive nei piccoli e grandi gesti di solidarietà spontanea: una pizza donata, un turno regalato dal collega, gli sportelli di aiuto psicologico, gli striscioni appesi sui cancelli degli ospedali e sui balconi delle case, le raccolte fondi. Curanti che curano altri curanti e sostegno nei volti dei cittadini che paiono riscoprire oggi il grande valore di questi pionieri della cura, che comunque e nonostante tutto non smettono di sorridere attraverso gli occhi che si scorgono dalle mascherine usurate. Il sincronismo di questo tempo si manifesta anche nella capacità degli infermieri di modellarsi come un liquido in un vaso, di trovare codici e linguaggi comuni, di costruire nuovi paradigmi di riferimento, di reggere il sistema curando oltre ogni fatica e incertezza, consegnando immagini di coraggio, resilienza e compassione (Smith, Cheung, 2020) che dipingono gli attimi di luce di questo momento, gli istanti di Kairos, di quel tempo opportuno di cui vogliamo lasciare traccia, affinché si faccia memoria.

UN TEMPO FERITO DALLA COMPASSIONE
“E poi c’è una cosa che ho capito sarebbe stata diversa da ogni contatto con qualsiasi altro paziente avvenuto prima: per la prima volta nella mia esperienza professionale sentivo piena comunanza tra me e loro. Guardavo i loro occhi pieni di paura e sentivo la loro stessa paura. Ascoltavo il loro dolore e mi immaginavo esattamente quel dolore addosso a me.addosso a me. Perché rispetto ad ogni altra malattia, la Covid poteva arrivare a ferire anche me.Come se l’empatia tanto studiata in Università arrivasse dirompente nella sua forma più angosciante. Quando poi mi sono ammalata, ho capito ancora di più che c’è un prima e un dopo. E che non sarò mai più la stessa quando tornerò a lavorare”.
Si scorge l’immagine nitida della compassione, in queste parole di una infermiera intervistata per un progetto di ricerca. In questa epidemia, il “patire con”, nel significato originario aristotelico, pare essersi manifestato nella sua forma più autentica. Viviamo lo stesso limite. Siamo rami dello stesso albero. La compassione, per Aristotele, si manifesta infatti quando si presentano tre condizioni. La prima è che un evento assai grave ha colpito qualcuno; la seconda è che esso non è dipeso dalla sua responsabilità; la terza è che noi avvertiamo di essere potenzialmente esposti allo stesso pericolo, perché figli della stessa vulnerabilità, appartenenti ad una medesima comunità di destino (Cannavò, 2014). Guardando i malati che assistiamo, attraversando la paura del contagio e del dolore, scorgiamo noi stessi.
Mai come in questo tempo infatti, ci ricorda Paolo Trenta (2020), viviamo la possibilità che da condizione empatica si possa transitare ad una di “fusione emotiva”, di contagio emozionale in cui ci si proietta nelle condizioni del paziente, e si rischia di provare lo stesso dolore. Condizioni queste appena descritte che i curanti possono incontrare nel corso della propria attività, ma mai con questa intensità, con un irrompere precipitoso ed incontrollabile; mai ci si era sentiti così esposti, così guaritori e feriti allo stesso tempo, perché “non c’è nulla di più pesante della compassione. Nemmeno il nostro proprio dolore è così pesante come un dolore che si prova con un altro, verso un altro, al posto di un altro, moltiplicato dall’immaginazione, prolungato in centinaia di echi” (Kundera, 1985).
Il guaritore ferito, ogni infermiere oggi, ha bisogno di un tempo per curare le proprie lacerazioni, necessita di non essere lasciato solo a costruire dispositivi di protezione emotiva che aiutino a dare un senso alla comune esperienza di coinvolgimento che questa infezione porta con sé, affinché possa continuare ad aver Cura dell’altro.
Questo tempo ferito dalla compassione sta però compiendo una grande opera morale e deontologica, che sottoscrive nei gesti e nelle azioni quotidiane i principi e i valori della nostra professione. Il nostro codice deontologico è nei volti e nelle mani di chi sta lavorando senza sosta per dare Cura alla nuova sofferenza che un piccolo microrganismo ha regalato al mondo: sofferenza fisica, psicologica, sociale. Una sofferenza che ha scoperchiato i nostri fallimenti, le nostre fragilità, i nostri punti di grande forza, e che viene sollevata dal tocco, dalla parola e dallo sguardo di un popolo di infermieri coperto da tute e scafandri, ma capace di prossimità e intima vicinanza tali da nobilitare l’anima, oltre che il corpo di chi è costretto all’isolamento e al silenzio degli affetti.
Non saremo ricordati e celebrati per gli atti tecnici compiuti, ma per l’immenso patrimonio di competenze relazionali che ci accompagnano nello stare accanto in questo tempo, e che le narrazioni virtuose che stiamo raccogliendo testimonieranno.

UN TEMPO NEGATO E RITROVATO
Il tempo cronologico fa i conti inevitabilmente con il cessare della sua esistenza, che coincide solo nel momento della morte umana.
Philippe Ariès diceva che a partire dagli anni trenta del novecento nella maggior parte dei paesi occidentali c’è stata una rivoluzione nell’atteggiamento rispetto alla morte: “La morte così onnipresente nel passato da essere familiare, sarebbe stata cancellata, avrebbe dovuto sparire. Sarebbe diventata una vergogna e un tabù” (Didion, 2005).
Viviamo in una società che allontana la morte dai discorsi, che la evita, che la rimuove dagli occhi, che la medicalizza tanto quanto medicalizza la stessa vita.
Eppure, con l’esplosione della pandemia qualcosa è cambiato, siamo stati costretti a fare i conti con l’evento morte, a vivere guardando in faccia la possibilità di incontrarla. La morte è tornata a popolare le nostre case, a toccare le persone a noi vicine, con una dimensione di ineluttabilità mai forse vissuta prima di questo tempo. Più naturale nella sua innaturalezza. Più terribile ma consolante al tempo stesso. Terribile perché privata dei suoi riti di passaggio, senza la possibilità di essere celebrata, nella lontananza e nella solitudine. Consolante perché rivestita di attenzione e di una consapevolezza nuova, quella che non delega, quella che non si accanisce, quella che vorrebbe solo accompagnare, come si rievoca nelle parole strazianti di una figlia quando dice: non ricoveratela, voglio tenerla qui con me, così almeno posso salutarla.
Un tempo negato, ma al contempo ritrovato, che ha consegnato agli infermieri il mandato di essere sacerdoti (termine da leggersi nel suo significato di “colui che accompagna, che segue”) dell’ultimo tratto di strada, spesso unici testimoni del passaggio, tramite con la famiglia e gli affetti lontani, e garanti di una dignità del morire sollevata dai gesti assistenziali che si fermano nell’Aion, il tempo eterno della nostra memoria. La dignità della morte ci ha sfiorato nell’intimo, nostro malgrado, e forse sapremo riconoscerla e rispettarla anche quando tutto questo sarà passato, se non ne dimenticheremo il valore.

In conclusione, voglio riscomodare nuovamente Agostino e la sua idea del tempo. Egli lo colloca in un unico presente caratterizzato da tre sfaccettature: Il presente del passato, che è la memoria; il presente del presente, che è la visione; il presente del futuro, che è l’attesa.
Gli infermieri, in questa pandemia, sono già memoria. Il presente è una visione fatta delle tante immagini che abbiamo cercato di fissare. E il futuro?

E futuro che arriva: chissà se ha fiato.
Lo attendiamo.

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Bibliografia

– Borgna E. (2015), Il tempo e la vita, Milano, Feltrinelli.
– Cannavò F. (a cura di) 2014. Aristotele. Retorica, Milano, Bompiani Editore.
– Didion F. (2005) L’anno del pensiero magico, Milano, Il Saggiatore.
– Kundera M. (1985) L’insostenibile leggerezza dell’essere, Milano, Adelphi.
– Smith G.D, Ho Cheung Li, (2020) COVID-19: Emerging compassion, courage and resilience in the face of misinformation and adversity, Journal of Clinical Nursing, 00:1–4.
– Trenta P. (2020) La relazione medico-paziente in tempi di Covid 19, Italian Journal of Prevention, Diagnostic and Therapeutic Medicine, vol.3. Speciale Covid 19.