“Abitare le relazioni”


Perché se la vita è così bella produce tanto dolore?”(Boris Pasternak)

Tanto più si è sensibili alla vita, tanto più si è esposti al dolore… e viceversa” (Vito Mancuso)

Il 7 febbraio 2020 a Padova, nella Sala Rossini dello storico Caffè Pedrocchi, ho partecipato ad un incontro dal titolo particolarmente toccante “La Bellezza e il Dolore”, durante il quale è stato consegnato il Nuovo Codice Deontologico per le Professioni Infermieristiche, redatto nel 2019. La presentazione è stata curata da Barbara Mangiacavalli (Presidente nazionale FNOPI), Fabio Castellan (Presidente OPI Padova), Andrea Merlo (vice Presidente OPI Padova), Aurelio Filippini (Presidente OPI Varese), Pio Lattarulo (membro gruppo stesura del Nuovo Codice), Vito Mancuso (Filosofo e teologo).

Al termine mi è stato chiesto di rendere una testimonianza sui temi trattati, in quanto cittadina e paziente.

Nonostante fossi totalmente estranea all’argomento del Nuovo Codice, mi sono sentita immediatamente coinvolta nelle riflessioni proposte, sin dalla descrizione della genesi di questo testo, che mi è parso subito, non solo un adeguamento normativo, quanto piuttosto un progetto, una forma di connessione tra esperienze passate e futuro, sintesi e forse avvio di un processo culturale necessario.

Infatti mi è sembrato di cogliere, grazie all’entusiasmo espositivo, un nuovo paradigma, conquistato dopo anni di lavoro, data la materia complessa, con approccio multidisciplinare, teso ad abbattere diverse barriere comunicative a partire da un nuovo discernimento, nato dall’ascolto delle diverse parti in causa (infermieri, legislatori, pazienti, ministero della Salute e rappresentanti religiosi…).

Una visione che al di là degli aspetti scientifici, tecnici e giuridici, non ha potuto prescindere da quelli etici: l’aver posto al centro la qualità della relazione tra operatori e assistiti, basata sull’attenzione alla sofferenza, diviene così momento fondante, utile ad improntare anche il percorso terapeutico e assistenziale, come hanno sottolineato più volte i relatori.

Penso che favorire questo incontro, fatto di un tempo dedicato, tempo che diventa esso stesso cura, sia fondamentale per dare dignità e forza sia a chi sta affrontando una malattia, tanto più se cronica e invalidante, sia a chi deve trovare risposte efficaci in suo sostegno.

Questo tempo di ascolto, ben considerato nel nuovo Codice deontologico, risulta essere particolarmente significativo perché introdotto come norma: viene sancito cioè un diritto inalienabile a chi si è visto purtroppo a volte negare momenti e gesti che avrebbero potuto lenire senso di solitudine e umiliazione che un dolore non accolto può comportare.

Sappiamo bene che spesso ciò può essere dipeso dalla fretta, per la difficoltà di coprire servizi essendoci una cronica carenza di personale nelle strutture sanitarie, ma spesso si intuiva che il dialogo ed uno scambio più umano, meno formale non rientrava nelle direttive dei reparti che ho dovuto frequentare in vari periodi della vita, improntati ad una funzionale rapidità ed impersonalità. Per fortuna la volontà e sensibilità dei singoli operatori ha sopperito in tal senso e devo dire che negli anni ho visto cambiare molto questo atteggiamento.

Mi rendo conto che non sia compito facile prendersi cura delle persone, saper leggere il dolore, accoglierne i bisogni sottesi e tradurli in azioni di sostegno concrete. Ma è una sfida che riguarda tutti: pazienti, infermieri, medici, familiari, istituzioni e società civile. Tanto più in questi anni in cui la popolazione sta invecchiando, cambia rapidamente la sua composizione sociale e culturalmente si tende a sfuggire il tema del dolore o della morte.

Bisogna attrezzarsi. Questa consapevolezza richiede formazione e nuovi strumenti.

Come questo incontro informativo, durante il quale ho trovato interessante la compresenza di una parte “esperienziale” ed una più teorica: segno di un agire consapevole, che necessita di tempi di riflessione, di un costante aggiornamento. Ho apprezzato molto la passione e la dinamicità con cui si stanno affrontando queste tematiche, così importanti per definire i confini deontologici di chi opera in campo infermieristico.

Inoltre mi è parso di cogliere come ci sia stato un “ribaltamento di piano” nei rapporti tra assistenti ed assistiti (da verticale a orizzontale), considerati ora parti attive di uno stesso processo, un cambio di prospettiva che valorizza un reciproco scambio costruttivo.

Quello che è emerso chiaramente è la volontà di ricucire le disuguaglianze che il dolore crea, di voler essere presenti nell’assistenza con generosità e solidarietà anche attraverso gesti semplici ma significativi, come un tocco o uno sguardo, che generano un’eco emotiva nei rapporti che si creano. E recuperano un certo senso di Bellezza, personale e professionale, che in questo caso consiste nell’abitare le relazioni in modo nuovo.

Tutto ciò è già prova della tanto auspicata umanizzazione delle cure, che significa credo, fondamentalmente, riconoscimento dell’altro, in un esercizio di reciproca verità.

Mi auguro che ci possano essere sempre più momenti informativi e di condivisione come questo, aperti alla cittadinanza, così da favorire riflessioni utili anche per superare la dilagante sfiducia e diffondere i valori di civiltà espressi dal nuovo Codice deontologico.

Tuttavia, affinché questi valori non vengano disattesi e restino “lettera morta”, penso sia necessario sostenerli allocando adeguate risorse umane e finanziarie, considerate finalmente come un investimento e non solo come una spesa.

Resta, ma direi meglio, si rinforza, dopo questa serata di presentazione, il profondo rispetto per la professionalità del personale infermieristico, da sempre vero ponte, tra medici, pazienti e familiari. Un essere medium che diventa sempre più soggetto ed interprete sociale.

Infine, mi permetto una nota biografica, per meglio spiegare il senso e l’origine delle mie parole di testimonianza.

Frequento da tempo la dimensioni del Dolore in quanto negli anni ho accompagnato familiari ed amici, nei loro travagliati percorsi di malattia o del fine vita.

Convivo da un ventennio con una forma severa di Fibromialgia, Affaticamento cronico accompagnata da una disabilità motoria: un dolore inizialmente non diagnosticato, sconosciuto, non molto compreso anche in ambito lavorativo e familiare. Condizione che ha creato un certo senso di spaesamento; ha cambiato la qualità delle mie relazioni e ha fatto sorgere tante domande.
domande.

Ho conosciuto molte “stagioni culturali”, nelle alterne vicende terapeutiche e assistenziali: dalla scarsa considerazione iniziale, che mi rendeva quasi invisibile ad un crescente rispetto, dovuto anche ad una maggiore conoscenza dei problemi da parte degli operatori. Per cui posso dire di essere stata una paziente…molto paziente. Ma anche resiliente.

Complice una natura, curiosa, intuitiva, sempre in cerca di soluzioni, che nell’Arte, nella Natura e nella pratica creativa recupera spunti di Bellezza e trova strumenti per affrontare le continue difficoltà, nonché un importante uno spazio di espressione.

Nonostante le fatiche fisiche e psichiche, non ho mai perso la fiducia in un miglioramento delle condizioni cliniche e terapeutiche, viste le scoperte che una ricerca ben sostenuta potrebbe ottenere.

E soprattutto, superando un certo isolamento dato dalla malattia, assieme ad altri fibromialgici, conto nell’ascolto e riconoscimento anche dei legislatori: ad esempio con l’inserimento della nostra sindrome nei livelli minimi di assistenza del Sistema Sanitario Nazionale (L.E.A) che, sebbene sollecitato più volte, tarda ad arrivare, con notevoli costi personali e sociali. Per questo ci adoperiamo inoltre per costituire una rete di sostegno, quasi sempre basata sul volontariato, laddove mancano strutture e servizi adeguati.

Ciò che metto in campo quotidianamente è la consapevolezza che il senso profondo del nostro dolore stia nella trasformazione che questo può operare, in noi stessi e nel contesto in cui viviamo.

Non credo alla visione “salvifica” del dolore in sé e per sé. Credo piuttosto che sia un’occasione per ripensare alla vita e alla morte del tutto soggettiva, certo, ma se espressa in varie modalità e condivisa anche in ambiti associativi, può avere una valenza collettiva e diventare occasione di miglioramento per tutti.

Per me la parola chiave è dunque TRASFORMAZIONE: accogliere ed imparare a gestire i limiti, restando aperti, per riprogettare costantemente la vita e riconoscere le occasioni di Bellezza che sempre ci regala. In questo ho trovato la mia libertà, oltre e grazie alla mia condizione.

Per riprendere il titolo dell’incontro, forse non si tratta di sanare l’antinomia tra Bellezza e Dolore, ma di accoglierne l’apparente contraddizione, quale segno di una polarità vitale, vero giacimento di tesori da scoprire e condividere. E’ una possibile via, praticabile.

E l’essere madre mi ha portato a considerare tutto ciò anche come una forma di eredità.

Vito Mancuso ci ha ricordato che prima di fare dobbiamo essere, stare bene e far star bene gli altri.

Serve dunque un tempo che abbia nuove qualità, un tempo “propizio”, com’è stato definito, ricco di senso, che sappia intravvedere oltre la fretta ed il rumore di fondo che spesso caratterizza le nostre vite, per farle andare oltre ogni sterile autoreferenzialità e farsi dono.

Ho sentito questa necessità enunciata anche nel nuovo Codice, tanto ricco di spunti, che richiama ad una rinnovata fiducia e responsabilità nell’idea del prendersi cura.

Se sapremo sostare e creare uno spazio dove fare silenzio attorno al Dolore e alla Bellezza, potremmo ascoltarne le note più profonde e forse così, ciascuno come può, contribuire a riscrivere assieme una nuova grammatica delle relazioni.

10 maggio 2020

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