Educare alla prevenzione: il ruolo dell’infermiere di famiglia


Negli ultimi anni il cittadino ha un ruolo sempre più attivo nei processi decisionali in ambito sanitario per quanto riguarda il mantenimento dello stato di salute e la gestione delle sue patologie anche grazie all'abbandono di una visione paternalistica della medicina e all'innalzamento del livello culturale della popolazione che richiede sempre maggiori informazioni riguardo i temi della salute. Tuttavia, non sempre le persone dispongono di tali competenze e conoscenze, ma hanno bisogno di una guida che permetta loro di avere un ruolo più attivo nella gestione del proprio benessere.

Questo interesse s’inserisce in un panorama di progressivo invecchiamento della popolazione che va di pari passo con l'aumento di patologie croniche e comorbilità.
Le malattie croniche sono causa di morte per 40 milioni di persone ogni anno.
Nella maggioranza dei casi, i fattori di rischio delle malattie croniche sono pochi, conosciuti e prevenibili. Tre dei più importanti sono una dieta poco sana, l'inattività fisica e il consumo di tabacco. Globalmente, questi fattori di rischio stanno aumentando.

L'educazione alla salute ha anche motivazioni di tipo economico, infatti, i costi legati al recupero della salute sono elevati a fronte di una disponibilità limitata di risorse, a differenza di quelli preventivi e di promozione della salute che sono meno onerosi (Scalorbi, 2012).

L’infermiere di famiglia
Dalla pubblicazione nel 1998 del documento “Salute 21” dalla sede europea dell'OMS, si è iniziato a dibattere in maniera diffusa circa la figura dell'infermiere di famiglia (Menarello e Bidone et al., 2016).

Per implementare l'assistenza sanitaria nelle cure primarie dovrebbe essere inserito un infermiere di famiglia adeguatamente formato, in grado di offrire consigli sugli stili di vita, sostegno alla famiglia, servizi di assistenza domiciliare e sostegno attivo all'autocura. Tale approccio svilupperebbe significativamente la prevenzione dalle malattie e delle lesioni e assicurerebbe il trattamento precoce ed efficace di tutti quei pazienti che non necessitano di assistenza ospedaliera.
L'infermiere di famiglia è, quindi, un professionista sanitario che progetta, attua, valuta interventi di promozione, prevenzione, educazione e formazione. È chi si occupa dell'assistenza infermieristica all'individuo e alla collettività lungo tutto l'arco della vita, non solo di determinate fasce d'età (anziani, bambini) e lungo l'intero continuum salute-malattia grazie a una buona presa in carico; sostiene interventi di ricerca, indagini epidemiologiche in comunità e in ambito familiare, promuovendo azioni educative e preventive oltre che curative.
Informare le famiglie sui fattori di rischio legati agli stili di vita e individuare precocemente i problemi sanitari fa sì che questi siano affrontati a uno stadio iniziale, soprattutto grazie a una buona relazione di fiducia tra le parti (Scalorbi, 2012).

Le aree di maggiore interesse dovrebbero essere:

  • prevenzione primaria. Ha il suo campo d’azione sul soggetto sano e si propone di mantenere le condizioni di benessere e di evitare la comparsa di malattie, attraverso interventi di promozione della salute.
  • prevenzione secondaria. Rappresenta un intervento di secondo livello che mediante la diagnosi precoce di malattie, in fase asintomatica (programmi di screening), consente l’identificazione di una malattia o di una condizione di particolare rischio seguita da un immediato intervento terapeutico efficace, atto a interromperne o rallentarne il decorso.
  • prevenzione terziaria. Fa riferimento a tutte le azioni volte al controllo e contenimento degli esiti più complessi di una patologia. Consiste nell’accurato controllo clinico-terapeutico di malattie ad andamento cronico o irreversibile, e ha come obiettivo quello di evitare o comunque limitare la comparsa sia di complicazioni tardive che di esiti invalidanti. Con prevenzione terziaria s’intende anche la gestione dei deficit e delle disabilità funzionali consequenziali a uno stato patologico o disfunzionale. Si realizza attraverso misure riabilitative e assistenziali, volte al reinserimento familiare, sociale e lavorativo del malato, e all'aumento della qualità della vita.
  • La prevenzione terziaria deve essere in grado di progettare dei percorsi di cura che possano ridurre il peso delle complicanze e in particolare della non autosufficienza.
  • interventi di assistenza infermieristica diretta in caso di necessità, ad esempio contestuali alla visita programmata (Menarello e Bidone et al., 2016).

Ruolo preventivo nelle cure primarie
L'invecchiamento della popolazione vede prevalere patologie cronico-degenerative che se non adeguatamente prese in carico possono esitare in stati più o meno gravi di non autosufficienza. É qui che appare evidente il valore del ruolo della prevenzione terziaria che è chiamata a intervenire all'interno dei processi assistenziali al fine di garantire la continuità ospedale-territorio e l'integrazione degli interventi socio-sanitari (Piano nazionale della Prevenzione 2010-2012). Prevenire e guarire fanno parte della cura, tuttavia le pratiche curative hanno spesso occultato i successi della prevenzione, forse perché guarire una malattia è più spettacolare che impedirne la comparsa. Si è progressivamente passati da una prevenzione in funzione della visibilità immediata di un pericolo a una prevenzione dei rischi quotidiani per evitare ulteriormente la comparsa di malattie (D’Ivernois e Gagnayre, 2009).

La Prevenzione rientra nei LEA, ovvero tra le prestazioni e i servizi che il SSN è tenuto a fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento di una quota di partecipazione.
La sua attuazione si esplica tramite l’educazione sanitaria che fornisce le informazioni necessarie per un esame critico dei problemi della salute e a responsabilizzare gli individui ed i gruppi sociali nelle scelte comportamentali che hanno effetti diretti o indiretti sulla salute fisica e psichica dei singoli o della collettività.

La prevenzione delle malattie e l’educazione sanitaria, insieme all’assistenza dei malati e dei disabili, sono le principali funzioni dell’infermiere (Profilo professionale DM 739/94) che quindi promuove stili di vita sani, la diffusione del valore della cultura della salute, anche attraverso l'informazione e l'educazione; a tal fine attiva e mantiene la rete di rapporti tra servizi e operatori.

Il Codice Deontologico sottolinea che l’assistenza infermieristica è al servizio della persona e della collettività e si realizza attraverso interventi specifici, autonomi e complementari, di natura intellettuale, tecnico-scientifica, gestionale, relazionale ed educativa. L'infermiere di famiglia deve conoscere la comunità in cui opera e la rete dei servizi territoriali (servizi sociali comunali, misure a favore della fragilità, associazioni di volontariato, ecc) per poter orientare al meglio i cittadini che ne abbiano bisogno e per una migliore integrazione socio-sanitaria (Rocco e Marcadelli et al., 2017).

La necessità di ampliamento di questa figura sul territorio è sentita anche dai cittadini, infatti, un cittadino su due ritiene che il numero di infermieri sia insufficiente a garantire sia in ospedale che sul territorio e sono in tanti a chiedere soluzioni che promuovano la figura del professionista nella realtà quotidiana.

Dalle indagini svolte con i MMG risulta complesso per gli operatori documentarsi rispetto all'evoluzione di scenario e di ruoli, così come sono scarsi i momenti di confronto su possibili sviluppi futuri (Pandiani, 2016. Obbia, 2015. Pedrazzini, 2017).
L'infermiere di famiglia rappresenta un'evoluzione del ruolo infermieristico con competenze avanzate e una possibilità di utilizzo soprattutto nell'ambito delle cure primarie, ma non c'è una chiara percezione e conoscenza delle sue potenzialità (Calamassi e Rossi et al., 2011).

Paesi come l'Inghilterra contemplano già da tempo questa figura, ovvero il Public Healty Nurse, che presta servizio in grandi comunità e si occupa degli aspetti relazionali e pratici che riguardano il mantenimento e il supporto della salute della popolazione.
Simile è il contesto degli USA con il Family Nurse Practitioner che, se necessario sotto la supervisione del medico di famiglia, pone le basi per l'educazione della famiglia e fa attività di supporto nell'assistenza sanitaria.

Il modello di cure primarie attuato in Spagna prevede che i cittadini scelgano il proprio medico di famiglia e il proprio infermiere di famiglia, che in genere ha in carico circa 1500 utenti. L’investimento in promozione della salute ed educazione a livello individuale e di gruppo è molto alto.
In Italia sono stati fatti diversi tentativi d’inserimento di questa figura professionale nel SSN, ma attualmente sono attive solo sperimentazioni. La legittimazione contrattuale e di riconoscimento deve ancora avvenire compiutamente.

Dal punto di vista formativo la situazione in Italia è a macchia di leopardo; molte università italiane hanno attivato master di primo livello per infermiere di famiglia, ma le esperienze che sono nate sul territorio nazionale non sono molte e sono diversificate tra loro. Gli infermieri che hanno seguito un percorso professionalizzante non hanno avuto un riconoscimento formale né sul piano organizzativo né su quello contrattuale (Rocco e Marcadelli et al., 2017).

L’infermiere educatore
L'educazione terapeutica rappresenta l'educazione fornita da professionisti della salute formati che mira a rendere l'assistito capace di gestire i trattamenti e prevenire le complicanze, mantenendo o migliorando la qualità di vita.
L'educazione dei malati cronici è continua sia perché possono emergere esigenze specifiche sia perché la medicina è in continua evoluzione; se si realizzano “incidenti” significativi si deve verificare se essi siano stati provocati da un apprendimento inefficace (Scalorbi, 2012).
L'applicazione di comportamenti di salute può ritardare le complicanze derivanti dalla malattia e ridurre la dipendenza della persona.

Lo sviluppo in interventi atti a promuovere la partecipazione del paziente si rivela ancora più necessario quando l'esperienza di cura prevede un percorso lungo e con rilevanti conseguenze nella vita quotidiana della persona, come accade per le patologie croniche (Foglino e Bravi et al., 2015).
L'educazione terapeutica si situa a livello della prevenzione secondaria e terziaria e consiste in un vero e proprio transfert, pianificato e organizzato, di competenze dal curante al paziente e si inscrive in una prospettiva in cui la dipendenza del malato cede il posto alla sua responsabilizzazione (D’Ivernois e Gagnayre, 2009).

L'infermiere può agire positivamente sulla promozione del self care e sull'aderenza alla terapia farmacologica. È ampiamente dimostrata in letteratura la relazione tra buoni livelli di self care ed esiti di salute nella persona assistita (Ausili e Masotto et al., 2014).
La capacità di prendersi cura di sé da parte del malato cronico e dei suoi famigliari dipende in larga misura dalla qualità dell'assistenza infermieristica ricevuta.

È un processo che comprende attività rivolte alla cura personale quotidiana, ma anche relative alla cura terapeutica, effettuate dalla persona stessa oppure svolte da altri, caregiver formali o informali e può potenziare la qualità di vita in modo significativo attraverso la capacità di gestire i sintomi, il trattamento, le conseguenze fisiche e psicologiche e i cambiamenti dello stile di vita insito nel vivere con una malattia acuta, cronica o una disabilità. (Allievi e Re, 2017).

L'infermiere di famiglia, promuovendo il self care e l'educazione terapeutica, contribuisce a ridurre i costi a carico del SSR, ridurre gli accessi impropri in Pronto Soccorso e a migliorare i risultati di salute per gli assistiti.
Molti studi segnalano che l'educazione è più efficace quando è assicurata da personale che ha ricevuto una formazione specifica e l'efficacia dipende anche dalla qualità delle strategie pedagogiche. L’infermiere deve quindi ricoprire anche il ruolo di educatore (D’Ivernois e Gagnayre, 2009).

Una buona relazione terapeutica può aumentare la soddisfazione del paziente per le cure ricevute e migliorare gli esiti di cura.
La partecipazione dell'assistito alla relazione è vincolata al coinvolgimento di questo nel processo decisionale sulle possibili alternative terapeutiche (Cavallo e Lusignani, 2013).
Nella comunicazione devono essere applicati i principi del counseling e dell’ascolto attivo per migliorare la conoscenza non solo della malattia, ma anche della sfera psicosociale e di come la condizione fisica del paziente sta incidendo sulla sua vita personale e familiare (Ciaccio e Valentini, 2011).

Viene spesso sottolineata l'importanza di un maggiore coinvolgimento dei pazienti per aumentare l'aderenza alle indicazioni terapeutiche o nelle modifiche degli stili di vita.
È stato dimostrato come un maggiore coinvolgimento e responsabilizzazione del paziente e dei caregiver possa ridurre le prescrizioni “inappropriate”, aumentare la soddisfazione, l'adesione alla terapia e la capacità di fronteggiare la malattia con effetti positivi sugli esiti di salute e di qualità di vita.
Non si può parlare di aderenza terapeutica senza presupporre la presenza della partecipazione attiva da parte del paziente al processo di cura, in un rapporto di collaborazione con il personale sanitario basato sulla comunicazione e sulla condivisione degli obiettivi di salute.
Si parla quindi di shared decision making. Ciò è favorito dal processo di empowerment del paziente.
Questi pazienti hanno la consapevolezza e le conoscenze tali da poter influenzare e modificare positivamente le proprie azioni e la propria vita.

Conclusioni
La popolazione ha sempre più la necessità di una figura di riferimento che prenda in carico la persona in tutti i suoi bisogni e che sia in grado di orientare le famiglie ai molteplici servizi presenti sul territorio. È fondamentale la presenza di una persona chiave per la comunità che dovrebbe operare in stretta collaborazione con i medici curanti, ognuno con la propria autonomia.
La soddisfazione e una buona qualità della vita del paziente dovrebbero essere i principali obiettivi dell'infermiere, indipendentemente dal suo luogo di lavoro, ma la salute della comunità dovrebbe essere il principale dell'infermiere di famiglia.
In questo ruolo l'infermiere è meno tecnicista e diventa un educatore e un comunicatore che sa adattare la comunicazione all'età e al livello culturale di chi ha davanti.
L'importanza di questa figura non viene rivendicata solo dagli infermieri che hanno deciso di formarsi, perché già lavorano sul territorio, ma anche dai medici curanti e dai pazienti stessi che vogliono essere i protagonisti della propria salute e che avvertono l'abbandono di una medicina paternalistica in favore di una medicina centrata sul paziente.

 

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Bibliografia

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