Aspetti assistenziali della resilienza: il sostegno emozionale


Resilienza e malattia
Il fenomeno della resilienza viene studiato da molti anni e ne sono ben note le caratteristiche, la complessità e la multidimensionalità (Limardi et al., 2013; Earvolino – Ramirez, 2007; Gillespie, Chaboyer, Wallis, 2007). Mentre i primi studi tendevano a connotare la resilienza come una proprietà rara, posseduta da individui eccezionali, lavori successivi hanno suggerito possa trattarsi di una caratteristica ordinaria, derivante da tratti stabili di personalità e dall’azione dei sistemi adattivi di base, che non si manifesta nello stesso modo in tutti individui, né per lo stesso individuo nelle diverse situazioni di vita o nelle differenti età (Masten, 2014; Fitzpatrick, 2013; Herrenkol, 2013; Wekerle et al., 2013). A questo proposito è opportuno anche citare Masten (2001), che riduceva la resilienza ad uno stato di ordinary magic, mentre Oliverio Ferraris (2003, 2004) la definiva operativamente forza d'animo, denominazioni che, ancora oggi, possiedono il vantaggio di ricondurre il concetto nell’ambito dell’universalmente osservabile, nella comune quotidianità.
In questa ottica naturale, per quello che riguarda gli aspetti clinici, in una recente revisione Stewart e Yuen (2011) rilevano che i fattori associati e predittivi di resilienza nelle malattie fisiche non sono diversi da quelli identificati negli studi sulla resilienza in altre forme di avversità, fatto questo che non sorprende dato che, a prescindere dalla tipologia di avversità, sono gli stessi fattori (genetici, ambientali, emozionali, di coping, in associazione con le esperienze passate) che contribuiscono allo sviluppo degli atteggiamenti resilienti (Herrenkol, 2013). La stessa revisione ha individuato associazioni con aspetti direttamente correlati alla malattia come la buona cura di sé, la migliore aderenza ai trattamenti, la migliore qualità della vita, la positiva percezione della malattia, una più elevata soglia del dolore probabilmente mediata dall’affettività positiva (Finan e Garland, 2014), nonché alcuni esiti prettamente organici come una migliore situazione immunitaria. Gli individui identificati come resilienti appaiono tendenzialmente in grado di mantenere o riguadagnare buoni livelli di benessere generale, riferiscono crescita personale e cambiamenti positivi del sé. Alcuni importanti limiti sono riferiti alle alte percezioni di autoefficacia e di controllo interno, altamente vantaggiose nelle malattie moderatamente gravi e, in qualche modo, controllabili, ma potenzialmente rischiose nelle patologie a prognosi incerta laddove valutazioni irrealistiche della situazione potrebbero generare vissuti di delusione e di disadattamento. Inoltre, pazienti con malattie che hanno un impatto grave sulla capacità fisica necessiteranno in ogni caso di un forte sostegno sociale, pertanto le variabili correlate all'auto padronanza e al controllo interno potrebbero essere per loro poco utili.
In ogni caso, pur tenendo conto dei limiti descritti, sembra assodato che una grande forza d’animo consente a quasi tutte le tipologie di pazienti di affrontare più efficacemente e vivere meglio la loro malattia; molti saranno anche in grado di liberare capacità inespresse e di scoprire nuovi orizzonti di senso come beneficio della crescita interiore correlata al fronteggiamento della malattia (Stewart e Yuen, 2011). Visti gli effetti benefici correlati agli alti livelli di resilienza, occorre chiedersi se esiste la possibilità per gli operatori sanitari, per gli infermieri in particolare, di intervenire nel sostegno della forza d’animo nel corso del fronteggiamento della malattia. In secondo luogo, se questa possibilità esiste, occorre individuare le metodologie e gli strumenti da adottare per concretizzare nella pratica clinica queste funzioni supportive.

Supportare la resilienza: le metodiche
Il primo quesito è retorico. Non esistono dubbi sul fatto che la resilienza possa essere costruita e rafforzata. Una condizione fondamentale è il positivo superamento di precedenti avversità, i cui effetti sono ben descritti in letteratura dal modello dello steeling effect (Rutter, 2012), principio declinato nelle metodiche formative di stress – inoculation (Hughes, 2012) o nelle esperienze di stress a U rovesciata (Russo et al., 2012). Sono anche reperibili lavori che descrivono modelli di sviluppo strutturati come la SBCB Therapy (Padeski, Mooney, 2012) imperniato su tecniche cognitivo-comportamentali o lo SMART-OP, un modello auto-gestito basato su contenuti multimediali prestrutturati (Rose et al., 2013).
I modelli e le metodiche formative descritte, centrate sull’apprendimento nel corso di modulate esperienze di stress in contesti simulati, molto probabilmente efficaci sul medio – lungo termine, sembrano poco adatte all’applicazione nella complessità dei contesti clinici dove predomina l’impossibilità di graduare l’intensità delle esperienze e l’ingestibilità dei tempi. Il caregiver interessato a sostenere la forza d’animo del malato dovrebbe utilizzare tecniche meno strutturate. Secondo Stewart e Yuen (2011) i singoli pazienti dovrebbero essere incoraggiati a rievocare e riflettere sulle situazioni problematiche da loro affrontate con successo nel passato, rielaborazione che potrebbe aumentarne il senso di autostima e di autoefficacia. Il condizionale è richiesto dalla consapevolezza che l’accettazione e la rivalutazione degli eventi traumatici non è facile né scontata: la riflessione per la costruzione di senso è un processo faticoso che richiede un duro lavoro su se stessi e un forte sistema di sostegno sociale (Fitzpatrick, 2013; Herrenkol, 2013).

Supportare la resilienza: il sostegno sociale
Per quello che riguarda il sostegno sociale della persona malata le indicazioni della letteratura riguardano l’incoraggiamento di un senso di ottimismo realistico e di speranza, nonché di padronanza, sia nei confronti della malattia che delle capacità di farvi fronte; per questo ultimo aspetto risulta particolarmente utile coinvolgere i pazienti nella cura di sé, nella gestione del dolore e della terapia, nelle scelte di trattamento riabilitativo e nella ricerca di informazioni (Stewart e Yuen, 2011). Il sostegno sociale è un fattore ambientale fondamentale per riuscire a mantenere e aumentare la forza d’animo di fronte alle avversità. Evidenza, questa, oramai indiscutibile, che riguarda anche le persone anziane e gli ammalati (Stewart e Yuen, 2011; Grodstein, 2013; Edward, 2013; Herrenkol, 2013). Per i malati il sostegno sociale, in tutti i suoi aspetti, sia di fattività pratica, che emozionale e cognitivo, può provenire da familiari, amici, colleghi di lavoro ed anche da persone che affrontano o hanno superato malattie affini, nonché, pur in relativa carenza di indicazioni inerenti i metodi e il ruolo da assumere, dal personale sanitario (Stewart, Yuen, 2011).
In ogni caso, nel rispondere ai quesiti posti, pare plausibile affermare che esiste la possibilità di sostenere gli ammalati nel corso del loro personale percorso di crescita, favorendo la rielaborazione delle precedenti positive esperienze, incoraggiando l’autonomia personale e la manifestazione di sentimenti di speranza e ottimismo. Rimane solo da chiedersi: in quale contesto sanitario e quali operatori hanno a loro disposizione il tempo e le capacità per dedicarsi alla creazione di un rapporto di fiducia tale da consentire la condivisione delle storie di vita e il conseguente efficace incoraggiamento? Gli infermieri possiedono queste capacità ma è improbabile ne abbiano il tempo. Occorre individuare un'altra strada.

Supportare la resilienza: il sostegno emozionale
La resilienza individuale è malleabile e particolarmente sensibile al contesto sociale. Le evidenze suggeriscono che le caratteristiche individuali e quelle ambientali si combinano nel contribuire a sostenere la resilienza (Herrenkohl, 2013). In particolare risulta fondamentale l’attitudine dell’ambiente sociale nell’indurre emozioni positive (Fitzpatrick, 2009; Steptoe et al., 2009).
In letteratura sono stati utilizzati una serie di termini diversi per descrivere l’affettività positiva come felicità o vitalità emotiva, solitamente associati a tratti di speranza, serenità e soddisfazione di sé e della propria vita, con una notevole sovrapposizione tra i vari costrutti tutti strettamente correlati tra loro (Steptoe et al., 2009). Fredrickson (2001) intendeva l’affettività positiva come l’insieme delle emozioni (intense, a breve termine) e dei sentimenti (tenui, a medio-lungo termine) discreti e fenomenologicamente distinti, come la gioia, l’interesse, la soddisfazione di sé, l’orgoglio o l’affetto, tutti caratterizzati dalla capacità di indurre benessere (flourish) fisico e psicologico.
La relazione tra affettività positiva e resilienza nei momenti critici è chiarita dal modello classico di amplificazione e costruzione di risorse (broaden-and-build theory) formulato proprio da Fredrickson (2001). Il modello, lineare ed elegante nella sua semplicità, è stato formulato tenendo conto di una larga gamma di studi allora disponibili e, nel corso degli anni, è stato più volte riconfermato (Kok et al., 2013). Il modello si fonda sulla nozione di modulazione fisiologica delle emozioni positive e su tre effetti correlati. In primo luogo l’effetto di reversibilizzazione, ovvero la capacità delle emozioni positive di modulare le conseguenze delle emozioni negative (Fredrickson, 2001). Oltre a indurre un effetto psicologico di sollievo, le emozioni positive creano benessere dal punto di vista fisico, con una più bassa produzione di cortisolo, migliori livelli di pressione arteriosa e frequenza cardiaca ed anche una migliore configurazione negli indicatori di infiammazione (Steptoe et al., 2009). Al contrario le emozioni negative tendono ad attivare il sistema nervoso autonomo determinando, fra le altre modificazioni, aumento della frequenza cardiaca, della vasocostrizione e della pressione arteriosa. Negli anni novanta esperimenti di laboratorio (Fredrickson, Levenson, 1998) avevano già dimostrato che sperimentare emozioni positive, sia ad alta che a bassa intensità, poteva placare i perduranti effetti cardiovascolari delle emozioni negative. In secondo luogo, in modo probabilmente connesso all’effetto di reversibilizzazione, le emozioni positive modificano anche il modo di pensare delle persone tramite un effetto di amplificazione cognitiva: Fredrickson (1998) ha sostenuto, e il suo gruppo di lavoro sostiene ancora (Kok et al., 2013), che, mentre le emozioni negative aumentano l’attività autonomica e restringono il campo dell’attenzione per sostenere adattive tendenze all’azione, come ad esempio l’attacco e la fuga, le emozioni positive riducono l’attivazione allargando il campo d’attenzione, del pensiero e i repertori comportamentali esplorativi.
Una larga gamma di studi, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, ha fornito evidenze su tali modificazioni, in particolare sull’induzione di modelli di pensiero inusuali (Isen et al., 1985), flessibili (Isen e Daubman, 1984) e creativi (Isen et al., 1987); Kahn e Isen (1993) avevano anche dimostrato che le emozioni positive aumentano le preferenze delle persone per la varietà e allargano il loro ventaglio di scelte comportamentali accettabili. Inoltre l’amplificazione cognitiva che accompagna gli stati emotivi positivi espande e migliora le modalità di fronteggiamento delle avversità. Ancora, alcuni esperimenti di laboratorio avevano dimostrato che le emozioni positive indotte facilitano la focalizzazione e l’elaborazione di informazioni importanti, di rilievo per il sé (Aspinwall, 1998). Infine, l’effetto di costruzione di risorse. La reversibilizzazione e l’amplificazione cognitiva producono effetti benefici nel breve termine. Nel tempo, con ripetute esperienze di emozioni positive, può divenire tendenza abituale uno stile di coping con prospettive allargate. Il modello suggerisce che esperienze ricorrenti di emozioni positive, tramite gli effetti di reversibilizzazione, amplificazione e costruzione, possano aiutare la concretizzazione di questo tratto favorevole caratterizzato da una ampia gamma di risorse: fisiche (abilità fisiche, salute, longevità), sociali (legami amicali, reti di supporto), intellettuali (competenza, complessità), e psicologiche (resistenza, ottimismo, creatività). Sintetizzando: sfruttando l’effetto immediato previsto dal principio della modulazione fisiologica delle emozioni positive pare possibile sostenere la forza d’animo delle persone malate.
Rimane un punto da chiarire: nell’intreccio di rabbia, tristezza, timore e ansietà usualmente correlato a tutti i gradienti di malattia, come possono essere indotte emozioni positive? Secondo i criteri del comune buon senso le sensazioni soggettive di benessere sembrerebbero ingiustificate e, soprattutto, inadeguate. Tuttavia è noto da tempo che nelle circostanze avverse le emozioni positive si presentano in concomitanza con le negative (Folkmann, Moskowitz, 2000). Uno studio su resilienza ed emozioni dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 (Fredrickson et al., 2003) presenta alcuni esempi che potremmo trasporre nei contesti di malattia: la gratitudine per chi si prende cura di noi, il più profondo affetto verso i propri cari a seguito dell’incertezza sul futuro, un nuovo interesse per gli altri a seguito del cambiamento delle priorità vitali, una più profonda spiritualità e la ricerca di senso o di nuovi significati dell’esistere.
In conclusione, il concetto di resilienza è complesso e multidimensionale, inoltre sono ancora molti gli aspetti oscuri nella relazione tra emozioni positive, resilienza e salute fisica (Steptoe et al., 2009; Stewart e Yuen, 2011; Kok et al., 2013). Ciononostante, le conoscenze prodotte negli ultimi venti anni forniscono le opportunità concettuali per intervenire nel sostegno dei processi di resilienza direttamente nei contesti clinico-assistenziali.

Conclusioni: una (scomoda) proposta
Gli ambiti di lavoro degli infermieri sono molteplici. Variano per complessità e per tipologia di utenza e non sembrano esistere categorizzazioni efficaci nel descriverne la variabilità. In tale discontinuità porre indicazioni specifiche su come sostenere la forza d’animo dell’utenza pare obiettivamente impossibile.
Tuttavia, le poche generiche indicazioni sin qui riportate mostrano che è possibile supportare i processi di resilienza sostentando l’affettività positiva e il benessere dell’utenza, a prescindere dalle sue diverse peculiarità e caratteristiche. In tal senso occorre tenere presente che gli infermieri già possiedono le competenze supportive che caratterizzano da sempre, dall’inizio della loro formazione, l’agire e il pensare professionale. La professione infermieristica è professione di aiuto. Ogni infermiere è potenzialmente in grado di sostenere la positiva affettività di ogni persona con cui ha, seppur breve, contatto. Cosa fare?
In primo luogo, in termini generali, i fondamenti professionali infermieristici possono produrre di per sé benessere emozionale:

  • le manifestazioni di profonda considerazione, di interesse e di rispetto totale della dignità, sostenendo l’autostima individuale, susciteranno sempre sentimenti positivi negli altri;
  • nei contesti istituzionali informare compiutamente gli assistiti, farli sentire ben accetti e protetti, soddisfarne efficacemente e prontamente i bisogni allevierà i sentimenti di ansia e insicurezza;
  • educare, istruire e coinvolgere i pazienti nella cura di sé, nella gestione della malattia e della terapia sosterrà i loro sentimenti di autoefficacia e di padronanza.

Da questo punto di vista non pare necessario dover esprimere speciali abilità psicologiche, vestirsi da clown o trasformarsi in ministri di culto.

In secondo luogo, in termini specifici, gli infermieri possono porsi domande, riflettere e trovare soluzioni praticabili su come sostenere il benessere emozionale di ogni singolo e diverso paziente nella sua particolare situazione clinica ed esistenziale. Pur non conoscendo a fondo le concept analisys e le tecniche educative di costruzione della resilienza, individuare soluzioni personalizzate sarà quasi sempre possibile.

È questa la parte scomoda della proposta. Scomoda perché è possibile lavorare, anche bene, senza la necessità di porsi nuovi problemi o di accollarsi responsabilità ulteriori. Tra l’altro, in questo sforzo, risultano poco utili le pianificazioni assistenziali standard o le classificazioni degli interventi. Occorre piuttosto utilizzare pienamente le capacità creative attinenti la spesso sottovalutata dimensione dell’arte professionale, esperienzialmente e clinicamente situata, fondata su attente osservazioni e su intuizioni mal descrivibili o trasmissibili a parole.

Pensare creativamente è faticoso. D’altra parte appare questa la via maestra per dare, o ridare, un senso allo specifico agire professionale, e, in definitiva, a proposito di relazione tra affettività positiva e forza d’animo, anche al proprio vivere. Forse è uno sforzo che vale la pena fare.
 

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