Cos’è e come si può misurare la sorveglianza infermieristica? Alcuni spunti dal dibattito internazionale sull’argomento


Nel 2009 è apparso sulla rivista Research in Nursing & Health un articolo molto interessante di Kutney-Lee, Lake e Aiken. L’articolo riporta i dati di uno studio che è stato condotto su un campione casuale di 9.232 infermieri di 174 ospedali dello Stato della Pennsylvania. Il tema è quello della sorveglianza infermieristica, definito dalle stesse Autrici come “un processo attraverso il quale gli infermieri monitorano, valutano e agiscono sugli indicatori emergenti di un cambiamento nelle condizioni dei pazienti. I componenti di questo processo includono: l’osservazione e l’accertamento continui, il riconoscimento, l’interpretazione dei dati clinici e il processo di assunzione di decisioni”.

Il processo di sorveglianza, enunciato in questi termini, sembra racchiudere, in sintesi, molti degli elementi che contraddistinguono la specificità della nostra professione. Le stesse Autrici affermano nell’articolo che la sorveglianza è “una delle principali e vitali funzioni degli infermieri”.

Ma questo contributo è interessante anche per altri aspetti: per esempio, tratta della competenza e dell’eccellenza nel lavoro dell’infermiere (Benner, 1984), delle dotazioni organiche (staffing [1]) e del contesto organizzativo nel quale operano gli infermieri, per giungere ad analizzare le ricadute di questi tre argomenti sui risultati attesi dai servizi sanitari (es. sui salvataggi mancati [2], sulle infezioni contratte durante la degenza e sulle morti inattese).

Il tema centrale dell’articolo è la sorveglianza. Questo concetto ha molteplici significati nel mondo sanitario. Il più familiare è relativo al monitoraggio degli indicatori di carattere epidemiologico. Gli infermieri possono essere coinvolti nella sorveglianza sanitaria di popolazioni attraverso attività quali gli screening della pressione arteriosa o dei livelli glicemici nel sangue, che possono essere svolti durante manifestazioni o all’interno di studi epidemiologici. C’è però un altro significato di sorveglianza, al quale fanno riferimento le Autrici, e che serve a inquadrare meglio il tema dell’articolo e a dare sostegno alla definizione di sorveglianza proposta. Dougherty (1999) definisce questo tipo di sorveglianza come “l’applicazione di processi cognitivi e comportamentali nella raccolta sistematica di informazioni utilizzata per esprimere giudizi e previsioni sullo stato di salute di una persona” (p. 524). Inoltre, nella famosa Classificazione degli interventi infermieristici (Nursing Interventions Classification, NIC) la sorveglianza è definita come “la continua e finalizzata acquisizione, interpretazione e sintesi dei dati dei pazienti per la presa di decisioni clinica” (McCloskey e Bulechek, 1996, p. 632).

Come già visto nella definizione posta all’inizio, le Autrici individuano cinque elementi costitutivi della sorveglianza e ne danno queste spiegazioni:

  • osservazione e accertamento continui. La dimensione temporale è una componente critica della sorveglianza (Dougherty, 1999). La sorveglianza differisce dall’accertamento in quanto la prima è una pratica continua che si prolunga nel tempo, mentre l’accertamento si riferisce spesso a un momento preciso nel tempo;
  • riconoscimento(recognition). Una componente fondamentale della sorveglianza è l’abilità degli infermieri di riconoscere le condizioni dei pazienti che deviano da un range di normalità. L’abilità di riconoscere e di “leggere la situazione” richiede conoscenze professionali, competenza (expertise) ed esperienza. L’abilità (skill) è facilitata dalla capacità dell’infermiere di ricordare esperienze precedenti o situazioni analoghe e di rispondere ad esse (Benner & Tanner, 1987) [3];
  • interpretazione. Dopo aver osservato e riconosciuto un’alterazione, l’infermiere interpreta e sintetizza questa informazione nel contesto del paziente e della situazione, contando molto sul pensiero critico e sul giudizio clinico. Il pensiero critico implica un atteggiamento di ricerca scettica (skeptical inquiry) così come un’abilità intellettiva (Kenney, 1995). Tanner et al. (1993) hanno definito il giudizio clinico come “l’applicazione della conoscenza formale e della teoria alla comprensione, da parte dell’infermiere, dei pazienti nel contesto di una data situazione”;
  • processo di presa di decisioni (decision making). Dopo aver raccolto e interpretato i dati sui pazienti, l’infermiere prende la decisione se continuare il monitoraggio o se agire in base agli indicatori di un cambiamento nelle condizioni cliniche del paziente. Molti ricercatori (Kramer et al., 2007, Kramer e Schmalenberg, 2004, Pearson et al., 2000) hanno riportato l’importanza del decision making infermieristico indipendente per la qualità dell’assistenza che ricevono i pazienti. Spesso le decisioni possono essere influenzate da fattori organizzativi e ambientali, come la disponibilità di risorse e l’ambiente di attività infermieristica (Nurse practice environment). Su quest’ultimo concetto ritorneremo più avanti.

La parte centrale dell’articolo individua cinque variabili (staffing, formazione, competenza clinica, anni di esperienza e ambiente dell’attività infermieristica) che possono essere misurate per costruire un profilo della capacità di sorveglianza, che può essere utilizzato per stimare la capacità di sorveglianza delle organizzazioni sanitarie. In buona sostanza, le Autrici sostengono che, misurando i valori delle cinque variabili, può essere stimato se un ospedale ha una buona capacità di sorveglianza nei confronti delle persone degenti.

In sintesi, le caratteristiche delle variabili, così come sono spiegate dalle Autrici, possono essere così riassunte:

  • composizione dello staff (staffing). È stato evidenziato scientificamente che il numero di infermieri presenti nello staff è associato ai risultati attesi sui pazienti (Aiken et al., 2002; Mark et al., 2004; Needleman et al., 2002, per quest’ultimo articolo si suggerisce la traduzione italiana in Management Infermieristico, 2005, 2, 14). Per esempio, Aiken et al. (2002) hanno dimostrato un aumento del rischio di mortalità a 30 giorni, così come un aumento del rischio di salvataggio mancato per i pazienti chirurgici negli ospedali con un basso rapporto infermiere per paziente;
  • formazione. Oltre allo staffing, i ricercatori hanno puntato la propria attenzione sulle caratteristiche della formazione degli infermieri come predittori dei risultati attesi sui pazienti (Aiken et al., 2003; Estabrooks et al., 2005; Tourangeau et al. 2007). Aiken et al. (2003) hanno rinvenuto tassi significativamente più bassi di mortalità entro 30 giorni e di salvataggio mancato in pazienti chirurgici negli ospedali con alti rapporti di infermieri laureati rispetto a quelli diplomati [4]. I ricercatori sostengono che la formazione universitaria sia in relazione diretta con le abilità di pensiero critico e di giudizio clinico degli infermieri, che sono essenziali per la sorveglianza dei pazienti (Aiken et al., 2003; Young et al., 1991);
  • competenza clinica (expertise). In un lavoro autorevole, Benner e Tanner (1987) hanno esplorato la relazione fra la competenza e lo stile della pratica degli infermieri e hanno dimostrato come gli infermieri competenti sviluppino l’intuizione, una caratteristica molto efficace del processo di sorveglianza. Gli infermieri competenti sono in grado di riconoscere situazioni con caratteristiche comuni e di correlare la situazione clinica corrente all’esperienza passata, di integrare la conoscenza della malattia del paziente con il suo contesto di vita e sono esperti nelle loro aree specialistiche. Quindi, gli infermieri competenti sono in grado di percepire immediatamente le modificazioni nelle condizioni cliniche dei pazienti e di intervenire per prevenire gli eventi avversi (Christensen e Hewitt-Taylor, 2006; Houser, 2003);
  • anni di esperienza. L’esperienza è necessaria per acquisire competenza, ma i due aspetti non sono necessariamente interscambiabili (Christensen e Hewitt-Taylor, 2006; Houser, 2003). Il numero di anni di esperienza, tuttavia, espone l’infermiere a condizioni dei pazienti e a scenari clinici talmente differenti da contribuire allo sviluppo della conoscenza, delle abilità tecniche e del pensiero critico (Benner, 1984). Le ricerche che collegano l’esperienza ai risultati attesi sui pazienti non sono ancora numerose, tuttavia i risultati esistenti sono promettenti. Per esempio, Tourangeau et al. (2002) hanno dimostrato che ogni anno in più di esperienza è associato con 6 morti in meno all’anno ogni 1.000 pazienti dimessi. In un altro studio, i servizi con infermieri con più anni di esperienza mostrano tassi inferiori di errori per le terapie e gli eventi avversi (Blegan et al., 2001);
  • ambiente di attività infermieristica (Nurse practice environment). È questo uno degli aspetti più innovativi dell’articolo. Il Nurse practice environment si riferisce alle caratteristiche del contesto organizzativo nel quale si svolge l’attività degli infermieri e viene definito da Lake come “le caratteristiche di un ambiente di lavoro che facilitano od ostacolano l’attività professionale dell’infermiere” (Lake, 2002, p. 178). Su questo argomento, al Center for Health Outcomes and Policy Research della facoltà di Nursing dell’Università della Pennsylvania a Filadelfia, sta lavorando da anni un team coordinato da Linda Aiken e Eileen Lake. Una delle tesi sostenute dalle Autrici nel loro articolo è, infatti, che l’ambiente dell’attività infermieristica influenzi in modo diretto la capacità di sorveglianza del personale infermieristico. Eileen Lake ha sviluppato nel 2002 una scala per valutare l’entità di cinque macro aree che compongono il Nurse practice environment. La scala si chiama PES-NWI (Lake, 2002) e comprende cinque macro aree: la partecipazione degli infermieri alle questioni ospedaliere; le basi infermieristiche per la qualità dell’assistenza; l’abilità, la capacità di leadership e il supporto dei manager infermieristici nei confronti degli infermieri; l’adeguatezza degli staff e della disponibilità di risorse e le relazioni collegiali fra infermieri e medici.

Come avrete sicuramente notato, le Autrici, parlando di competenza clinica dell’infermiere, citano l’importantissimo lavoro di Benner (1984, trad. it. del 2002), che ha individuato le caratteristiche distintive della competenza e dell’eccellenza infermieristiche. Nello studio che compare nell’articolo, le ricercatrici cercano di dimostrare che tanto più è alta la competenza e l’eccellenza degli infermieri, tanto più elevata è la loro capacità di sorveglianza e tanto meno frequenti sono gli eventi avversi che possono accadere. Per fare un esempio di quanto affermato, nell’articolo compare un’esperienza diretta di Benner (1984, p.126) che cita: “una volta un infermiere responsabile (charge nurse) durante uno dei suoi “giri” entrò in una stanza di degenza e notò immediatamente un’infusione endovenosa di lidocaina che aveva montato un macro-gocciolatore invece di un micro. Gli infermieri dei due turni precedenti, compresi un infermiere di rinforzo (floating) e un neolaureato, non associarono la letargia del paziente con il sovradosaggio del farmaco. L’infermiere responsabile, la cui sorveglianza fu eccellente, fece un tentativo di salvare la situazione arrestando l’infusione, ma l’effetto della sorveglianza collettiva dei diversi infermieri nel tempo contribuì al successivo arresto cardiaco del paziente e alla sua morte”. Nell’articolo questo esempio serve anche a fare delle riflessioni sul significato collettivo della sorveglianza, che è il risultato sia di interventi erogati da molti infermieri nel corso del tempo, così come di interventi di singoli infermieri

Per arrivare ai dati scientifici emersi nello studio riportato dall’articolo, dobbiamo ricordare un ulteriore aspetto dell’analisi svolta dalle Autrici, che si riferisce al carico di lavoro degli infermieri, perché è del tutto intuitivo che meno infermieri sono presenti nel servizio e minori saranno le attività di sorveglianza che potranno essere messe in atto. Nell’articolo è preso in considerazione il parametro del rapporto infermiere-numero di pazienti assistiti quale indicatore di staffing. I dati citati nello studio si riferiscono a infermieri che lavorano in ospedali per acuti e in servizi di degenza ordinaria, ad esclusione quindi delle aree critiche.

I dati ricavati dallo studio, relativo a ben 174 ospedali, sulle variabili della capacità di sorveglianza infermieristica, mostrano che il carico di lavoro medio per tutti gli ospedali è superiore ai cinque pazienti per infermiere (5,52). In media, un terzo degli infermieri ospedalieri possiede almeno una laurea quadriennale (baccalaureate degree), ha almeno tredici anni di esperienza e si assegna un valore tra competente e abile per la propria competenza clinica (la scala di valori era: “principiante avanzato, competente, abile ed esperto, con un punteggio numerico ad ogni valore da 1 a 4).

I dati provenienti da ciascuno dei 174 ospedali sono stati ordinati e poi aggregati per decili. Gli infermieri negli ospedali classificati nel decile più alto assistono approssimativamente due pazienti in meno degli infermieri nel decile più basso della capacità di sorveglianza (4,61 contro 6,72, rispettivamente). Più del 40% degli infermieri negli ospedali meglio classificati ha un livello formativo universitario (bachelor degree), contro il 20% degli infermieri nel decile più basso. La competenza clinica stimata è pressoché paragonabile, con valori leggermente più alti negli ospedali meglio classificati (2,89 contro 2,69, rispettivamente). Gli infermieri degli ospedali nel decile più alto della capacità di sorveglianza hanno anche più anni di esperienza rispetto a quelli degli ospedali del livello più basso (14,44 contro 12,62, rispettivamente). Gli infermieri degli ospedali nel decile più alto della capacità di sorveglianza valutano l’ambiente dell’attività infermieristica in modo più favorevole rispetto a quelli degli ospedali del livello più basso. Le differenze nelle medie fra tutte e cinque le sottoscale del PES-NWI sono considerevoli. Le maggiori differenze fra i decili si sono osservate nella voce “Adeguatezza dell’organico e delle risorse” (2,56 contro 1,87, rispettivamente, dove i numeri rappresentano il grado maggiore o minore di percezione dell’adeguatezza da parte degli infermieri [5]).

In conclusione, possiamo fare alcuni commenti: il confronto con la produzione scientifica di altri Paesi serve per comprendere quali siano i temi di interesse a livello internazionale. Il tema delle ricadute in termini di risultati sanitari (quali i salvataggi mancati, le infezioni e la mortalità) di parametri quali le quantità di infermieri presenti, i livelli formativi, le caratteristiche organizzative dell’ambiente di lavoro è senz’altro un tema molto dibattuto e analizzato. Un altro spunto di riflessione è osservare che anche negli Stati Uniti esistono problemi analoghi ai nostri, quali quello della disomogeneità della formazione o della criticità del rapporto infermieri-pazienti.

L’insegnamento che possiamo trarre da questo confronto è che i dati presentati in analisi come quella citata nell’articolo sono molto stimolanti per il nostro Paese, perché le ricerche analoghe sono ancora sporadiche: abbiamo a disposizione dati nazionali, per esempio, sul numero di pazienti assisiti mediamente per turno (nell’articolo è riportato il dato di 5,52 pazienti assistiti da un infermiere in media per turno, e da noi?), sulla composizione degli staff (infermieri laureati rispetto a infermieri con diploma regionale, rispetto a OSS) e sulle ricadute in termini di outcome (mortalità e infezioni rispetto a dotazioni di organici)?

Probabilmente i tempi sono ormai maturi per dare avvio ad analisi approfondite delle condizioni organizzative del lavoro degli infermieri nei nostri ospedali e sulle ripercussioni di tali elementi sugli esiti clinici.

Note

[1] In inglese le caratteristiche degli organici si riassumono col termine staffing, termine che comprende in sé le determinanti qualitative e quantitative degli stessi organici.

[2] Salvataggio mancato (Failure to rescue). È un indicatore messo a punto dalla AHRQ (Agency for Healthcare Research and Quality) per studi sulla qualità e sicurezza dell’assistenza sanitaria. Utilizza i codici ICD9CM delle Schede di dimissioni ospedaliere. Questo indicatore dà una misura di come le organizzazioni sanitarie rispondono ad alcuni eventi che accadono ai pazienti durante la degenza, quali la polmonite, lo shock, l'arresto cardiaco, l'emorragia gastroenterica, la sepsi e la trombosi venosa profonda. Lo scopo è di individuare i pazienti per i quali vi è un ritardo nella diagnosi o nella terapia di una delle complicanze identificate fra quelle per le quali una maggior efficacia delle prestazioni sanitarie e la tempestività d'azione potrebbe ridurre il rischio di morte. Viene utilizzato come indicatore di screening, in quanto risente di numerose variabili fra cui: l’accuratezza e gli stili di codifica, la gravità del paziente e le patologie da cui è affetto, per cui a volte è inevitabile il decesso, la qualità della documentazione sanitaria (ministero della Salute: http://www.ministerosalute.it/qualita/paginaInternaQualita.jsp?id=267&menu=sicurezza, ultimo accesso il 3 aprile 2011, NdT).

[3] I termini inglesi di expertise e skill, utilizzati da Benner e Tanner, sono stati tradotti rispettivamente con “competenza” e “abilità” in accordo con la traduzione italiana del testo di Benner, “L’eccellenza nella pratica clinica dell’infermiere” a cura di C. Calamandrei e L. Rasero, Milano, McGraw-Hill, 2003.

[4] Nel testo originale si fa spesso riferimento agli Infermieri Registrati (Registered Nurse) per indicare gli infermieri che possono legalmente esercitare la propria attività professionale negli Stati Uniti e in Canada. Il percorso per diventare un RN negli Stati Uniti prevede varie possibilità di durata e di sede formativa: il minimo è un diploma degree, un corso di due o tre anni svolto nei maggiori ospedali, poi si passa all’associate degree, un corso di tre anni svolto in un college universitario, per passare infine al baccalaureate degree, un corso di quattro anni svolto in sede universitaria, che rilascia il titolo di Bachelor of Science in Nursing (BScN). Nell’articolo si auspica che gli RN abbiano almeno il titolo di BScN, perché questo si traduce in migliori risultati clinici sui pazienti.

[5] L’ambiente dell’attività infermieristica è stato misurato utilizzando gli indicatori PES-NWI (Lake, 2002). Il sistema PES-NWI comprende 31 voci che utilizzano una scala tipo Likert a quattro punti (completamente d’accordo, parzialmente d’accordo, parzialmente in disaccordo, completamente in disaccordo) per valutare le percezioni degli infermieri sulle caratteristiche organizzative nel proprio ospedale.

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