È ormai largamente accettata l’idea che la genesi di quadri gravi di disabilità psichica o di disordini dello sviluppo psico-mentale sia di tipo multifattoriale e che gli interventi in ambito psichiatrico debbano quindi essere multidisciplinari e di diverso tipo: riabilitativo, psicoterapeutico, medico-farmacologico, assistenziale ed anche educativo.
Dopo gli anni Settanta e la legge 180/1978, la concezione di malattia psichiatrica, da inguaribile e puramente clinica, si è evoluta verso una concezione riabilitativa, che valorizza le risorse della persona. Ogni individuo, per modificare stili di vita o affrontare una malattia, deve sviluppare diverse competenze, tipiche della persona adulta:
- interpretare in modo positivo gli eventi della vita;
- trasformare l’evento doloroso o che crea disagio in una forma altra, da cui può ripartire realizzando comunque il proprio progetto;
- costruire attivamente contesti di vita sani.
Attualmente, nella maggior parte dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (Spdc) non vi sono strategie di coinvolgimento degli utenti nella cura; il trattamento in queste strutture, infatti, si basa quasi esclusivamente sull’approccio farmacologico. Quest’ultimo, pur essendo efficace negli episodi psicopatologici acuti, è poco utile nell’aiutare i soggetti ad acquisire maggiore consapevolezza dei problemi connessi con l’insorgenza della crisi; inoltre non aiuta a migliorare le capacità di interazione con l’ambiente e a sviluppare una progettualità post-dimissione.
Da diversi anni, in alcuni Spdc si sta cercando di superare i limiti di pratiche basate esclusivamente sull’accudimento, sulla custodia e sull’uso del farmaco, al fine di promuovere la responsabilità personale in un’ottica di cogestione della malattia anche in fase acuta, secondo la convinzione che nessuno è privo di risorse (De Stefani, 2007). A questo proposito già da diversi anni nell’Spdc di Trento si stanno utilizzando pratiche utili a supportare gli utenti verso processi di cambiamento e di sviluppo positivo: ne sono esempi la terapia cognitivo-comportamentale (basata sul modello stress-vulnerabilità-coping), il progetto Ufe, basato sui principi dell’empowerment e sull’apertura del servizio, ovvero l’esclusione della limitazione negli spostamenti degli assistiti (porte aperte).
Spdc a porte aperte
Sul territorio nazionale, gli Spdc a porte aperte ovvero non chiusi a chiave, dove non si ricorre all’uso di metodi di contenzione, sono ancora una minoranza (Tabella 1). I servizi psichiatrici che utilizzano approcci tradizionali (porte chiuse e utilizzo di mezzi di contenzione fisica) sono ancora l’80% (Dell’Acqua et al., 2007).
In altri paesi europei i servizi di degenza per pazienti psichiatrici acuti che hanno le porte aperte sono più diffusi, come risulta dalla letteratura anglosassone: in particolare a Londra tale misura è adottata dal 75% delle strutture (Bowers et al., 2002). Altre rilevazioni condotte nell’Europa dell’Est (Ungheria, Romania, Slovacchia e Slovenia) hanno evidenziato che solo il 21% degli assistiti psichiatrici valutati nel Census day si trovava in un servizio a porte chiuse (Rittmannsberger et al., 2004).
Tabella 1 – Distribuzione geografica degli approcci porte chiuse e porte aperte negli Spdc italiani
SEDE dell’SPDC | N° POSTI LETTO | CLASSE | FREQUENZA ALLONTANAMENTI NEGLI SPDC a porte aperte | APPROCCIO |
SPDC TRENTO (Porte aperte dal 17/01/11) | 15 | A | Non frequenti (2-3 al mese) | Porte aperte h 8-20 (TSO sorveglianza continua con supporto “dell’Area Crisi”) |
SPDC MERANO | 10 | A | Non frequenti | Porte aperte h 8-21 |
SPDC MANTOVA | 14 | A | Non frequenti (4-5 al mese) | Porte aperte sempre |
SPDC PORTOGRUARO | 15 | A | Non frequenti | Porte aperte h 8-20 (TSO controllati a vista) |
SPDC CALTANISSETTA | 13+ 2 | A | Non frequenti | Porte aperte h 8-21 (TSO controllati a vista) |
SPDC SIENA | 8 | A | Non frequenti | Porte aperte h 8-21 (TSO controllati a vista) sistema di allarme |
SPDC ROMA | 15 fino a 22 | A | Non frequenti (3-4 al mese) | Porte aperte h 8-01 (TSO controllati a vista) |
SPDC PESCIA | 6 | A | Non frequenti (circa 2 al mese) | Porte aperte h 7-21 (TSO controllati a vista) |
SPDC GROSSETO | 10 (6 + 4DH) | A | Non frequenti (1 ogni 2-3 mesi) | Porte aperte h 7-21 (chiuse se TSO o situazione di crisi acuta) |
(ex) SPDC GORIZIA (CSM 24 ore) | 12 | A | Non frequenti | Porte aperte sempre (CSM nelle 24 ore) |
SPDC CAGLIARI | 27 | A | Non frequenti | – |
SPDC NOVARA | 15 | A | Non frequenti | Porte aperte h 8-20 (TSO controllati a vista, chiuse se emergenze) |
SPDC BOLZANO | 10 | A | Non frequenti | Porte aperte sempre |
SPDC MATERA | 8 | A | Non frequenti | Porte aperte sempre (chiuse se TSO) |
SPDC TRIESTE | 6 | A | Non frequenti | Porte aperte sempre (TSO controllati a vista) |
SPDC AVERSA | 8 | A | Frequenti | Porte aperte sempre (TSO controllati a vista) |
SPDC MESTRE | 12 | B | – | – |
SPDC VENEZIA | 12 | B | – | – |
SPDC ODERZO | – | B | – | – |
SPDC PERUGIA | 24 | B – D | – | – |
SPDC S. MARCO IN LAMIS | – | D | – | – |
SPDC ISEO | – | D | – | – |
SPDC TREVISO | – | D | – | – |
A: PORTE APERTE e NO CONTENZIONE
B: PORTE CHIUSE e NO CONTENZIONE
D: PROGETTO PORTE APERTE IN CORSO
Alcuni studi che hanno messo a confronto strutture con porte aperte e chiuse hanno evidenziato un maggior gradimento delle persone ospiti negli Spdc a porte aperte (Muller et al., 2002). Da uno studio di Van Der Merwe et al. (2009) risulta che le porte chiuse sono correlate ad un aumento dell’aggressività dei pazienti, diminuzione della soddisfazione, aumento della severità dei sintomi, aumento degli episodi di fuga. In uno studio effettuato a Trento, rivolto ad esaminare la percezione degli assistiti ospiti in Spdc sui vantaggi/svantaggi di un servizio con porte aperte, è emerso che con le porte chiuse aumenterebbero il senso di frustrazione, paura, demotivazione, oppressione, depressione (Davì, 2009).
Lavorare con le porte aperte significa rispetto delle persone, clima interno più disteso, riduzione delle situazioni pericolose ed agiti aggressivi, minor riscontro di situazioni di rottura. Questo a vantaggio di tutti quei criteri (auto-responsabilizzazione, non violenza, auto-determinazione, co-gestione e conoscenza della propria malattia, partecipazione al progetto terapeutico, conoscenza di sé, condivisione delle esperienze) indispensabili per ottenere una maggior collaborazione degli utenti al processo di cura e creare i presupposti per uno sviluppo positivo dell’individuo, affinché sia in grado di affrontare gli avvenimenti dolorosi che possono aver condotto alla degenza e risorgere quindi dalle situazioni traumatiche.
Nessuno può sensatamente sostenere che legare una persona al letto rappresenti una misura terapeutica. Toresini (2004) afferma che la chiave di ogni successo terapeutico sta nella capacità di stabilire una relazione positiva con il paziente ed è proprio l’alleanza terapeutica il veicolo principale della relazione. Difficile pensare che una persona, alla quale abbiamo legato mani e piedi, si possa alleare con noi. La dimensione terapeutica, quindi, rappresenta l’unica garanzia di miglioramento delle condizioni del paziente e di conseguenza una strategia per una possibile diminuzione delle dosi farmacologiche.
Pullia (2001) afferma che è molto più facile legare il paziente piuttosto che utilizzare strategie di contenimento basate sulla relazione e tecniche non violente di intervento sulla crisi. È più facile chiudere le porte dell’Spdc piuttosto che convincere un paziente a non allontanarsi, è più facile prorogare un Tso piuttosto che convincere un paziente ad accettare le cure in regime volontario. Certamente la gestione di un paziente aggressivo senza strumenti di contenzione fisica è più complessa, ma è questo l’unico modo per stabilire una relazione sulla quale innestare la nascita di un processo terapeutico.
Il non legare è un indicatore molto sensibile ed attendibile:
- di un clima di lavoro interno sempre rispettoso della dignità delle persone, operatori e pazienti che siano, della professionalità di infermieri e medici;
- della garanzia di rispetto e mantenimento di parametri di struttura, quali lo stato degli spazi di vita per i pazienti e di lavoro per gli operatori e il numero degli operatori in servizio;
- di buone e fluide relazioni fra servizio e organizzazione complessiva dell’ospedale generale, dai servizi di degenza al Pronto Soccorso (Catanesi et al., 2006).
Non legare e operare con la porta aperta può certamente esporre al rischio obiettivo che qualche paziente inevitabilmente si allontani senza aver concordato l’uscita con gli operatori. Toresini (2004) afferma che, nella sua esperienza, nel 90% dei casi i pazienti che sanno che per un motivo o per l’altro (o in base ad una negoziazione serrata o in base a documentazione di avvenuto Tso) non è di fatto consentito loro allontanarsi senza consenso dal servizio, alla fine ci rinunciano quasi sempre, più o meno di buon grado. Nell’Spdc di Merano e di Trento, per esempio, vengono messe in atto determinate procedure, attenzioni, accorgimenti: questo fa sì che gli allontanamenti non siano più frequenti che negli Spdc a porte chiuse (Toresini, 2004; Davì, 2009).
È bene sottolineare che il no restraint e la porta aperta in nessun modo rappresentano un disinteresse da parte del personale verso la sofferenza di chi fa fatica a rendersi conto di aver bisogno di cure; viceversa rappresenta una ragione in più per istaurare una relazione terapeutica con l’utente, costringe e auto-costringe a stare con il paziente.
La negoziazione è lo strumento che gli operatori sanitari possono usare per tentare di ottenere la collaborazione dell’assistito, senza avere nei suoi confronti un atteggiamento impositivo, paternalistico o comunque squalificante. Consente di instaurare una relazione positiva, terapeuticamente ed eticamente efficace. La negoziazione parte dalla disponibilità degli operatori sanitari di lasciare emergere, ascoltare ed accogliere le aspettative del paziente. Si distende, inoltre, in un confronto tranquillo tra ciò che l’operatore può offrire terapeuticamente, nel tentativo di trovare un’area di sovrapposizione e di convergenza, e la richiesta e le aspettative dell’utente.
Attraverso la capacità di negoziare si gioca la possibilità di costruire una buona alleanza terapeutica, che consenta il coinvolgimento e la collaborazione tra assistito ed infermiere per un progetto comune.
Sulla porta si ascolta, si rassicura, si instaurano delle relazioni d’aiuto con il paziente, si parla dell’uscire, delle motivazioni di ciascuno per le quali è importante rimanere in un luogo di cura, si innescano talvolta delle comunicazioni di tipo ironico, a volte si legge insieme una rivista o si parla di sport o di musica. Il paziente insomma tiene in ostaggio, come si diceva in apertura, la persona che sta sulla porta, che è costretta, a volte anche con un po’ di cuore in gola, ad accettare e mantenere aperta la relazione con l’utente, evitando che il proprio lavoro si riduca ad espletare solo pratiche burocratiche.
La porta chiusa è certamente, oltre ad una barriera fisica, un messaggio di barriera relazionale e terapeutica che rinforza stereotipi di pericolosità. Viceversa, riuscire a tenere la porta aperta attraverso un sensato sistema di alleanze, con responsabilità, attraverso una scelta di tutti gli operatori, rappresenta un riconoscimento dei diritti del cittadino-utente ed un indicatore di buona professionalità (Toresini, 2004).
Il Progetto porte aperte di Trento
Il Progetto porte aperte dell’Spdc di Trento è nato nel 2007, in coerenza con le pratiche e la cultura dell’empowerment e del fareassieme, già da anni presenti all’interno del servizio. All’interno dell’Spdc si è formato un gruppo di lavoro multidisciplinare, formato da rappresentanti di tutto il servizio (medici e operatori del servizio, medici e operatori delle équipes territoriali, pazienti, famigliari e cittadini). Dopo aver effettuato una attenta revisione della letteratura si è cercato un confronto reale con le esperienze italiane no restraint, recandosi in visita in alcuni degli Spdc che lavorano già con le porte aperte. Alcuni rappresentanti del gruppo si sono recati nei servizi psichiatrici di Mantova, Siena, Arezzo, Portogruaro, Merano, Pescia. Gli incontri successivi del gruppo (più di una trentina dal 2007 ad oggi) hanno avuto lo scopo di mettere a fuoco le questioni cruciali, di riferire le sintesi dei confronti con le esperienze italiane di cui sopra, di partecipare a delle occasioni formative sull’argomento.
Il confronto tra i membri dell’équipe è stato ulteriormente stimolato da uno studio effettuato a Trento che ha indagato i bisogni formativi del personale dei servizi psichiatrici a porte aperte e dalla distribuzione (anche a utenti e familiari) di un questionario sui vantaggi/svantaggi dell’apertura delle porte nel servizio psichiatrico. I risultati discussi in una riunione generale all’interno del servizio hanno esplicitato questioni spinose in tema di sicurezza, responsabilità, coinvolgimento relazionale, di potere all’interno della relazione di cura. Queste tematiche sono state successivamente affrontate in un incontro specifico con il supporto di medici legali e magistrati. Al fine di favorire la realizzazione di questo progetto, il lavoro del gruppo è stato successivamente supportato, oltre che dall’intera Unità Operativa (Uo), anche dell’Azienda sanitaria, attraverso la realizzazione di cambiamenti organizzativi (creazione di un ‘gruppo crisi’) e l’avviamento di lavori di ristrutturazione dell’unità operativa, che termineranno nel 2011.
La creazione di un’Area Criticità ha permesso di: favorire una stretta comunicazione tra servizio ospedaliero – Centro Salute Mentale (Csm) – Day Hospital – Centro Diurno; valutare quotidianamente il livello di complessità dell’Spdc (riunioni quotidiane integrate tra Spdc e Csm, rotazione del personale, supporto diurno di operatori del Csm in caso di utenti in Tso); favorire l’utilizzo di strumenti per il miglioramento continuo della qualità (hot situation per il monitoraggio delle situazioni critiche, scheda di valutazione del clima di servizio, programmi personalizzati integrati, scala monitoraggio dell’aggressività manifesta).
Le modifiche strutturali sono state avviate invece al fine di: creare maggiori spazi con la possibilità di svolgere attività ricreative per/con gli utenti (palestra, gruppi mutuo aiuto, ping pong, calcetto); favorire delle strategie per evitare allontanamenti non autorizzati; ottenere una maggior visibilità sulla porta d’ingresso (spostamento dell’ambulatorio infermieristico con posizionamento di una vetrata). Il progetto di apertura delle porte effettuato dall’équipe di Trento in questi anni può considerarsi apripista di un percorso riproducibile ovunque.
Presupposti fondamentali per realizzare al meglio il progetto porte aperte in Spdc sono: in primis la volontà di attuare tale politica, una chiara direttiva dipartimentale, che enunci gli obiettivi da perseguire e che dia alle strutture le necessarie risorse ambientali e umane; un Dipartimento di Salute Mentale con fluidi collegamenti tra le varie strutture che lo compongono; una équipe unica fra ospedale e territorio (Area criticità); degli Spdc con un numero di posti letto ridotto (10-12 al massimo); dei Centri di salute mentale aperti 24 ore su 24 e 7 giorni su 7; delle residenze esterne con un numero ridotto di utenti e in grado di affrontare le crisi dei pazienti con il supporto del servizio territoriale; una pertinente dotazione di personale territoriale (per essere in grado di supportare il reparto in caso di bisogno); un redditizio rapporto con i medici di base e un buona collaborazione con il Centro salute mentale (Toresini, 2004).
Conclusioni
Attraverso l’esperienza dell’Spdc di Trento sono state esplorate alcune delle strategie di coinvolgimento di utenti e familiari nei servizi psichiatrici a porte aperte. Abbiamo visto come lavorare a porte aperte e utilizzare strategie di lavoro che mettono l’utente al centro del percorso di cura, anche in situazioni di crisi acuta contribuisca a sviluppare criteri positivi come l’autoresponsabilizzazione, la non violenza, l’auto-determinazione, lo sviluppo di capacità che promuovono alla resilienza, la co-gestione e la conoscenza della propria malattia, la partecipazione al progetto terapeutico, la conoscenza di sé, la condivisione delle esperienze. Tutti criteri che valorizzano la responsabilità personale e l’autoattivazione in un’ottica di cogestione della malattia anche in fase acuta, secondo la convinzione che nessuno è privo di risorse.
Il paziente empowered determina le sue scelte di vita, assumendosi le proprie responsabilità e impegnandosi a passare da una vita protetta a una vita normale. Il cittadino oggi chiede di non essere più solamente oggetto dei programmi terapeutici, ma soggetto consapevole e coinvolto.